La Stampa, 28 gennaio 2023
Ritratto di Mariapia Spolato, la prima attivista lesbica
C’è un episodio che Mariasilvia Spolato racconta in un articolo apparso sulla rivista del FuoriI! (il Fronte Unitario Omosessuale Italiano) e che sintetizza bene la sua trasformazione da ragazza cresciuta nell’agio borghese di Padova ad attivista che non ha paura di nulla. Perché è così che immagino chi compie la scelta dell’attivismo: eliminare ogni idea di paura; non temere le conseguenze, immediate o di lungo periodo, sulla propria vita. Nel 1971, Spolato vive a Frascati. Insegna matematica e informatica in un istituto tecnico cittadino. A Frascati non c’è nulla da fare, è poco più di un paese. Esiste un unico bar nella piazza principale. Lei lo frequenta ogni giorno dopo la scuola. Ordina latte e cognac e si mette a giocare a flipper. In poco tempo su Mariasilvia si sono sparse voci. Tutti sanno che è lesbica. Lei non ha fatto mai nulla per nasconderlo, del resto, e il suo attivismo si traduce anche nel vivere senza nascondersi pur trovandosi in un ambiente presumibilmente ostile. Il racconto di Mariasilvia sulla rivista indugia su un certo alterco avvenuto nel bar con il flipper, ingaggiato con Peppo, il bullo del paese. Racconta che dopo essere stata insultata, esce dal bar e trova i parafanghi del suo Maggiolone presi a martellate. Ma ormai ci ha fatto il callo. Qualche mese prima, scrive, una donna l’aveva presa a bastonate accusandola di aver messo in giro la voce che il figlio fosse gay. E poi scrive che dopo quella discussione ha capito di essere su una strada pericolosa ma giusta.
Spolato è stata la prima persona a portare in piazza la parola «omosessuale» in Italia. Letteralmente. L’8 marzo del 1972, infatti, centinaia di femministe si ritrovarono a Campo de’ fiori per la loro prima grande manifestazione organizzata. E lei, che all’epoca aveva 38 anni, aveva guadagnato una piccola porzione di quella piazza munita di un cartello con scritto «Fronte di Liberazione Omosessuale». Quelle parole formavano una sigla, Flo, che era il nome di un gruppo da lei formato l’estate precedente. Uso la parola gruppo impropriamente perché può darsi che si trattasse di un’esperienza solitaria e questo dimostrerebbe la sua inequivocabile solitudine quel giorno a Roma. Sola, in mezzo alle femministe che pure aveva cominciato a frequentare bazzicando di tanto in tanto il collettivo di via Pompeo Magno, nel quartiere Prati. Il gesto di Mariasilvia Spolato è cruciale non solo perché è stato il primo in Italia – una manifestazione omosessuale avverrà solo dopo un mese, a Sanremo, a opera del Fuori! di cui la stessa Spolato farà parte – ma non si può dimenticare anche per quello che le è personalmente costato. Quel giorno, per una serie di coincidenze della Storia, in piazza c’era anche Jane Fonda. Era volata da Parigi, dove stava girando con Godard, per mostrare il suo sostegno alle femministe italiane. La sua presenza aveva attirato decine di fotografi e, nel tripudio di flash, l’obiettivo si era rivolto anche su Mariasilvia e il suo cartello. La macchina fotografica l’aveva incastonata per sempre nel suo sguardo serio e vagamente sorpreso dietro i grandi occhiali da pentapartito. Quell’immagine era stata pubblicata su Panorama nella pagina di un’intervista a Simone De Beauvoir. Nella didascalia non veniva riportato il suo nome, ma il suo volto era perfettamente riconoscibile. Così, Mariasilvia Spolato perse il lavoro. Non le fu rinnovato il contratto: alla presidenza non andava giù il suo attivismo dichiarato. Senza lavoro, Spolato si barcamenò per un paio d’anni. Anni intensissimi, che mi piace immaginare elettrici; partecipa alla fondazione della rivista del Fuori!, pubblica un libro importante che documenta l’esistenza in Europa e nel mondo dei principali movimenti gay e lesbici (la sigla Lgbt ancora non esiste e la parola queer ha solo un significato dispregiativo), rilascia interviste, viaggia, vive il meraviglioso disordine di quegli anni. Ma a poco a poco, finendo i soldi e perdendo la casa, comincia a isolarsi dalle compagne e dai compagni. Per non passare la notte per strada sale sui treni notturni percorrendo la tratta Roma-Bolzano. A poco a poco svanisce. La si vede qualche volta alla Stazione Tiburtina, sempre più trasandata, sempre più persa nei suoi pensieri. Finisce con il non tornare più a Roma, stabilendosi a Bolzano dove vive per strada e diventa un personaggio locale. Lì fa amicizia con una donna di nome Hilda che lavora alla biglietteria della stazione. Non sa nulla del passato di Mariasilvia, ma rimane incantata dalla sua cultura, dal suo amore per i libri e per la musica classica, dalla sua abilità nel risolvere i cruciverba più difficili. Hilda la assiste, mentre inventa rebus complicatissimi che, sostiene Mariasilvia, contengono messaggi in codice. Quando le chiede di spedirli alla sede del Pci in via delle Botteghe Oscure, Hilda non fa una piega. A Bolzano Mariasilvia muore nel 2018 all’età di 83 anni. Per qualche anno ha vissuto in una casa di cura e anche le persone che l’hanno conosciuta lì non avevano idea di cosa sia stata e di quanto le sue gesta abbiano cambiato la vita di tanti. Io sono una di quelli. Oggi può sembrare anacronistico, a chi ha 16 anni e un algoritmo infinito di rappresentazioni fra cui scegliere per capirsi meglio, ma quando ero ragazza, io credevo di essere l’unica persona lesbica che avesse abitato la Terra. Ero ossessionata da un film, Pomodori verdi fritti alla fermata del treno. Era uscito al cinema nel 1992 e dopo averlo visto in sala comprai la videocassetta. Nella mia scena preferita, in un’aula di tribunale, Ruth, una delle due protagoniste, che deve rispondere della sparizione dell’ex marito violento, deve rispondere all’avvocato dell’accusa che le chiede come mai abbia abbandonato il tetto coniugale per scappare con Idgie, l’altra protagonista della storia. Lei esita, smette di guardare l’avvocato e fissa Idgie, seduta al banco degli imputati. «Perché è la migliore amica che possa esistere. E io la amo», dice. Allora non sapevo che quella scena mi turbava così tanto perché nascondeva un mondo che mi era stato arbitrariamente negato. Il film era tratto da un libro e nel libro le due protagoniste erano amanti, ma nel film si era deciso che un pubblico mainstream avrebbe preferito che fossero soltanto amiche. Quella scena in tribunale era l’unica cosa in mio possesso per immaginare, fantasticare e credere di non essere sola al mondo. Nel 1992 di certo ignoravo l’esistenza di Mariasilvia Spolato. Cosa mi avrebbe insegnato la sua storia se l’avessi conosciuta da ragazza? Che c’è stato un tempo in cui rivendicare chi si era poteva avere conseguenze sciagurate ma nonostante questo c’erano state persone che l’avevano fatto. E che queste persone, questa persona in particolare, non aveva alcun desiderio di diventare una martire, ma semplicemente, come scriveva nel manifesto del suo Flo, di battersi per l’amore fra le persone. —