La Stampa, 28 gennaio 2023
Invecchiare
Non è bella, la vecchiaia. «Non l’abbiamo mai né desiderata, né aspettata», dice Natalia Ginzburg nel suo magnifico saggio dedicato all’ultima stagione della vita, La vecchiaia, nella raccolta Mai devi domandarmi (Einaudi). Aveva cinquantadue anni, un’età che oggi è considerata poco più che adolescenziale, quando scriveva «ora noi stiamo diventando quello che non abbiamo mai desiderato diventare, e cioè dei vecchi». Ma i tempi, si sa, cambiano, e quell’«ora» che intende Ginzburg si è spostata in avanti, come se tutti noi avessimo compiuto un viaggio esistenziale in un territorio dal fuso diverso, lontano: i cinquanta di allora sono i trenta di oggi, i sessanta sono i nuovi quaranta, a ottant’anni il sesso è quella cosa meravigliosa che non era mai stata prima.
Sarà. Sarà vero? Come ogni altra fase della vita, la vecchiaia non è mai uguale a se stessa: ognuno di noi la affronta e la subisce in modo diverso. Certo, basta arrivarci, perché comunque l’alternativa – l’unica che c’è – è decisamente peggio.
Comunque sia e a qualunque età arrivi, non è bella, la vecchiaia. Se lo fosse, sarebbe tutto diverso. Se le rughe fossero parole sagge o divertenti scritte sul viso invece di mute crepe, se i capelli bianchi fossero infusi di una luce turchina invece che spenti, se sapesse di fiori d’arancio invece che di naftalina, la vecchiaia sarebbe tutta un’altra cosa. E invece non c’è proprio verso di camuffarla, se non con una patina ingenua, con qualche aggiustamento qua e là che riesce soltanto a far trapelare meglio quel che si vorrebbe nascondere, negare. La vecchiaia che si finge giovinezza è una pia illusione cui nessuno crede sul serio: il corpo racconta senza infingimenti, dice tutte le cose come stanno con un misto di sincerità e beffardaggine.
Come l’erba del vicino, anche l’età è sempre un po’ più verde di quella che non hai ancora o non più: da ragazzi si ha voglia di crescere, da anziani sarebbe un sogno avere una manciata di anni in meno, chissà se per ripetere cose già fatte o provarne di nuove. Del resto, la vita è fatta proprio così: fiducia e incertezza, scoperta e monotonia. Cose che ci accompagnano con tenace costanza e altre che si perdono per strada: un po’ come la pelle liscia che profuma di pesca.
Per Natalia Ginzburg, che a cinquantadue anni si sente addosso la vecchiaia e ne scrive con parole mirabili, la cosa più preziosa che con gli anni se ne va e un giorno qualunque ti accorgi di non averla più e non c’è nulla da fare, è persa, quella cosa è lo stupore. «L’incapacità di stupirsi e la consapevolezza di non destare stupore». Essere vecchi significa, per lei, annoiarsi e annoiare. Quanto è triste, quanto è vero: «L’hai già detto, ti ripeti sempre, l’ho già sentito mille volte da te, possibile che non te lo ricordi, di averlo già detto?». La vecchiaia è anche questo: ripetersi. Cioè essere noiosi, cioè un po’ inutili.
Ma lo stupore, la capacità di meravigliarsi di fronte alla vita, è forse l’emozione più bella di tutte: è come dire che stare al mondo vale la pena. È una scossa di felicità ogni volta. Stupirsi per un tramonto particolarmente infuocato, per il gorgheggio di un passerotto, per una parola al posto giusto, per una bella notizia: sistema la giornata e anche gli anni. Ma, proprio come dice Ginzburg, gli anni addosso diradano lo stupore: ti sembra di aver già visto, ascoltato e detto tutto. «Non mi stupisco più di niente» è un adagio di rassegnazione, venato magari di conformismo, ma con l’età è una frase che diventa sempre più tristemente probabile. C’è sempre meno di che stupire, man mano che il tempo passa.
Ma qualcosa, anzi tanto, resta. E allora, le parole della scrittrice che a cinquantadue anni parla della vecchiaia come fosse una cosa che la riguarda conviene prenderle come un monito, non una constatazione. Lo stupore deve restare parte di noi, deve continuare a farci sentire al posto giusto nel mondo. A saperlo e volerlo trovare, lo stupore si trova. Bisogna impegnarsi, farsi trovare pronti quando è il momento. Ma la vera battaglia contro la vecchiaia non sta nel piallare le rughe, nel sentirsi giovani (o giovanili!) anche se non lo si è. Sta nel conservare la meraviglia, nel coltivare l’esclamazione! Anche se le giornate si assomigliano tutte, anche se ci pare di aver già fatto e dato tutto quello che si poteva fare e dare nella vita: perché prima o poi si scopre che non è proprio così.
Lo stupore è la migliore, forse l’unica medicina contro l’invecchiamento: «La vecchiaia vorrà dire in noi, essenzialmente, la fine dello stupore. Perderemo la facoltà sia di stupirci, sia di stupire gli altri. Noi non ci meraviglieremo più di niente, avendo passato la nostra vita a meravigliarci di tutto; e gli altri non si meraviglieranno di noi, sia perché ci hanno già fatto fare e dire stranezze, sia perché non guarderanno più dalla nostra parte», dice Natalia Ginzburg. Ma parla al futuro, e il futuro si può sempre cambiare. Bisogna tenersi caro lo stupore, impegnarsi più che in qualunque altra cosa.
Come? Questa medicina contro l’invecchiamento ha un solo principio attivo, il resto sono tutti soltanto eccipienti. La vita è piena di difetti, ma è anche (fino a prova contraria) l’unica che abbiamo. Si tratta di amarla per quello che è. A differenza della vecchiaia, è bella. Con il tempo che passa, amare la vita diventa un impegno ma anche una consapevolezza, mentre prima era «soltanto» istinto. Da vecchi si ama (o si dovrebbe amare) la vita per affezione, per abitudine, per sapienza. Non è mica così difficile, amare la vita anche (e soprattutto) da vecchi. Ha il suo perché. Bastano, a volte, il sole che pian piano si tuffa nel mare, il chiacchiericcio rauco di due corvi, una bella notizia, un boccone caldo. Ci vuole poco per scacciare la noia, ritrovare lo stupore e pensare che la vita non è affatto male, a ben pensarci. —