La Stampa, 28 gennaio 2023
il Tabu dell’allattamento
Quanta allegria mi ha messo la foto di Maggie Maurer che allatta al seno la figlioletta nel backstage della sfilata parigina di Schiaparelli. Allegria e pace. Ogni volta che vedo una donna che allatta penso a quanto bene faccia, a tutti, assistere a uno spettacolo così naturale e gioioso. Fa bene alle mamme che ancora non si sentono libere di allattare in pubblico, e fanno acrobazie per nascondersi, e vengono rimproverate, oppure messe a disagio anche solo con lo sguardo. E fa bene a tutti gli altri, che così diventano testimoni di un gesto che a lungo, malauguratamente, s’è perso, e che rappresenta bene l’aspetto più pragmatico della maternità, e il fatto che le mamme hanno bisogno non solo di spazi specifici, ma di un mondo che sia, in ogni sua parte e in ogni momento, sempre accogliente per loro.
La comodità delle tette è che puoi dar da mangiare a tuo figlio appena ne ha bisogno, appena lo chiede: la realtà intorno deve permetterti di godere di questa comodità. E quella realtà è fatta dalle persone. Mi capita di allattare al bar: quasi tutte le volte, incontro almeno una donna che mi si avvicina e mi dice, con sollievo, con gioia, che se lo faccio io può farlo anche lei, e allora mi si mette di fianco e dà da mangiare al suo bambino.
Mi sembra sempre incredibile. E assai di più mi stupisce che tutto questo sia oggetto di dibattito, che ci sia ancora qualcuno che persino si irrita quando vede una donna che allatta; mi allarma che ci sia chi fa dei distinguo, chi crede che ci siano posti in cui sia più o meno opportuno farlo.
Otto anni fa, mentre allattavo mio figlio di tre mesi nel backstage di una sfilata, in Italia, mia madre mi fece una foto. Mi piacque moltissimo e la condivisi su Instagram, perché mi dava gioia, mi descriveva perfettamente: quella era la mia vita in quel momento. E poi pensai che avrebbe aiutato donne meno fortunate di me, che lavoravo e lavoro in un settore dove scene come quella erano già allora molto frequenti, persino ovvie. Non avevo alcuna intenzione, come scrisse qualcuno, di provocare o chiedere attenzione. Eppure se ne parlò per giorni, la foto finì su tutti i giornali, fece scalpore. Sorrisi allora e sorrido adesso.
Ho smesso di allattare mio figlio quando aveva tre anni e sto ancora allattando mia figlia di due anni e mezzo: le ostetriche inglesi che mi hanno seguita durante la mia prima gravidanza, mi hanno insegnato a farlo (in Inghilterra l’allattamento viene sostenuto moltissimo per una ragione prima di tutto pratica: fornisce ai bambini un sistema immunitario più robusto, quindi li rende meno esposti alle malattie, e questo comporta un risparmio per il settore sanitario). Non mi sono mai sentita a disagio, ma so che per altre madri è diverso, ed è una delle ragioni per cui ho scritto Mammitudine (Rizzoli): ho voluto condividere la mia storia, le cose che ho imparato, quelle che ho smentito, quelle che non avrei mai immaginato. Nessuno nasce genitore, nessuna nasce mamma: ci si diventa. E ci si diventa, credo, seguendo due strade: restando fedeli a chi si è e ascoltando le storie degli altri. Io ho messo la mia storia a disposizione non per essere imitata, quanto piuttosto per aiutare altre donne a capire cosa può fare e cosa può non fare per loro. Il senso profondo della condivisione di un’esperienza è anche fare in modo che altri possano risparmiarsela, andare oltre, o semplicemente scansarla.
Trovo sia giusto e importante raccontare che la maternità, per me, è stata un’acquisizione di super poteri, che tutte le cose che ero certa che non sarei mai riuscita a fare, quando poi sono nati i miei figli, ho trovato il modo e le energie per farle (e in questo sono stata certamente aiutata da una fortuna poco frequente tra altre madri: ho potuto mettere in pausa il mio lavoro). Ma mettere al mondo un figlio è anche frustrante: ti obbliga a rinunciare a una parte di te. Ed è per questo che è fondamentale non tradirsi. Ho letto che Clarissa Ward, la corrispondente di guerra della CNN, ha detto: «Per essere la migliore madre possibile, devo essere chi sono». Ha ragione. Una madre felice è una madre che è chi è; quanto più una madre è felice, tanto più lo è suo figlio. È un’equazione in cui credo profondamente, e ci credo perché l’ho desunta dall’esperienza: mamma felice uguale figlia o figlio felice.
Alla felicità delle mamme concorre anche il mondo che hanno intorno. Io quando ho rallentato e messo in pausa il lavoro per dedicarmi ai bambini, mi sono sentita giudicata male, quasi indotta a vergognarmi: era come se stessi tradendo l’emancipazione femminile, come se stessi facendo qualcosa di retrogrado. E quello sguardo così indagatore, inquisitorio, me lo riservavano soprattutto le donne. È uno dei paradossi di cui meno si parla e che però più sento gravare sulle mamme.
E poi c’è l’abbandono. La nostra è una società che chiede figli, ma fa fatica ad adeguarsi al fatto che le famiglie di un tempo, che assistevano le mamme prima e dopo il parto, non esistono più, e allora è lo Stato che deve incaricarsi di quella cura.
I fatti tremendi di questi giorni lo dimostrano: le madri non possono, non devono essere lasciate sole. È vero, hanno i superpoteri, ma non sono supereroine. —