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 2023  gennaio 28 Sabato calendario

Fate Germana Stefanini dall’anonimato

Il cadavere fu riconsegnato nel bagagliaio di un’auto, come cinque anni prima quello di Aldo Moro. Ma stavolta la vittima era molto meno famosa, e persino inattesa: una signora di 57 anni che i giornali dell’epoca definirono «anziana», vigilatrice del carcere femminile di Rebibbia addetta al controllo dei pacchi per i detenuti, nubile, di origini umili e popolari. Un secondina, si diceva allora. Assassinata a Roma il 28 gennaio 1983.
Si chiamava Germana Stefanini, ed è l’unica donna uccisa perché bersaglio designato del terrorismo rosso in Italia; l’altra vittima, Iolanda Rozzi, morì nel 1980 dopo un attentato incendiario alla casa dove viveva con la sorella militante democristiana, obiettivo della banda che appiccò il fuoco. Ma nonostante questo triste primato, Germana Stefanini ha faticato e fatica ancora oggi ad uscire dall’anonimato. È rimasta una tra tante, mai o quasi mai ricordata anche a quarant’anni esatti da quell’efferato delitto, commesso nella fase ormai discendente della lotta armata in Italia, quando non c’era più nemmeno il flebile collegamento con le pulsioni rivoluzionarie degli anni precedenti. E le azioni dei sedicenti guerriglieri incutevano solo terrore.
A rivendicare l’omicidio fu un piccolo gruppo vicino alle Brigate rosse-Partito guerriglia, battezzatosi Nucleo per il Potere proletario armato, formato da poche e giovanissime leve; autori di «una spietata esecuzione – scrisse il giudice istruttore nell’ordinanza di rinvio a giudizio – che soltanto paranoici e schizofrenici potevano compiere nell’attento, silente, rabbioso sgomento dei sani di mente, e in particolare dei veri “proletari” che nelle SS non si sono mai identificati».
Parole che trasudano sdegno per un’azione difficilmente comprensibile per chi aveva vagheggiato (o ancora vagheggiava) prospettive insurrezionali, mentre le Br e i gruppi affini decimati da arresti e «pentimenti» tentavano di resistere al ritmo di un attentato all’anno, destinati all’estinzione nel giro di un lustro.
Prima di ucciderla, i terroristi che l’avevano sequestrata in casa sua sottoposero Germana Stefanini a un «processo proletario». La fotografarono davanti a uno striscione pieno di slogan, («Accerchiare, smantellare e distruggere il carcere», «Annientare il personale politico-militare che lo attiva», eccetera), infagottata nel cappotto, le mani giunte in grembo, il capo reclinato e l’aria rassegnata. La registrazione dell’interrogatorio emerse dal covo dei suoi assassini, insieme ai bossoli degli spari con cui fu eseguita la sentenza di morte. Che due mesi prima avrebbe dovuto colpire anche una dottoressa del carcere, rimasta miracolosamente in vita con un proiettile in testa.
«Errori di questo tipo non si ripeteranno più», avvisarono i «proletari armati» nel documento di rivendicazione. E con Germana Stefanini mantennero la minaccia. Il volantino fatto ritrovare dopo il delitto la bollò come «aguzzina» impegnata a «manomettere, sezionare e distruggere» i pacchi destinati ai reclusi di Rebibbia, mentre svolgeva semplicemente il proprio lavoro di vigilatrice.
La registrazione
La trascrizione dell’interrogatorio doveva essere un atto d’accusa nei suoi confronti, ma ha solo svelato la crudeltà dei suoi assassini.
«Hai la licenzia media?».
«No».
«Che c’hai?».
«La quinta elementare».
«Perché hai scelto questo mestiere?».
«Perché non sapevo come poter vivere… Mio padre è morto nel ’74 e nel ’75 sono entrata a Rebibbia».
«Che funzione hai?».
«Io faccio i pacchi… (…) È poco che sto ai pacchi?».
«Ah è poco? Sono sei anni».
«Prima lavoravo all’orto. Reparto orto di Rebibbia».
«Controllavi il lavoro delle detenute?».
«No, lavoravo pure io. Se parli con le politiche (detenute per fatti di lotta armata, ndr) nessuna mi dice male, a me tutte mi portano così. Io le ho sempre trattate bene. Loro c’hanno l’idea loro e io la rispetto».
«Spiegaci come sei entrata a Rebibbia».
«Ho una cugina suora e lei me l’ha detto, perché lì non dovevo fare grosse fatiche e non dovevo tenere le mani a bagno. Io risposi “proviamo”». (…)
«Ma è il primo lavoro che facevi, questo?».
«Sì, perché avevo papà invalido di guerra».
«Tuo marito che stava…».
«Non sono sposata. Se avessi avuto marito mi contentavo di quello che portava lui…».
A un tratto nella registrazione si sente il pianto di Germana e uno dei sequestratori che dice «Nun piagne, tanto non ce frega un cazzo!», ma la donna insiste: «Ve l’ho detta la mia vita, perché ve la dovete prendere con me?». La stessa voce risponde: «Te l’ho detto, nun piagne, nun me commuovi proprio».
La risposta al nipote
Tutto questo avvenne nell’appartamento della vittima, dove i terroristi l’avevano aspettata e bloccata al suo arrivo. Nello stesso palazzo, un piano più su, abitava un’altra guardia carceraria in servizio a Rebibbia, Mirella; i «proletari armati» provarono a rapire anche lei facendola chiamare da Germana dalla finestra, ma la donna rispose che non poteva perché aveva il bambino malato. Con lei c’erano pure Marisa e Massimo, la nipote di Germana e il suo futuro marito; lui si affacciò e chiese se voleva che scendesse Marisa, ma Germana rispose brusca: «No, non mi servite a niente».
Massimo si stupì per il tono sbrigativo, senza immaginare in che situazione si trovasse la quasi-zia acquisita. Né si accorse di quello che avvenne dopo: i sequestratori che portano via l’ostaggio per ucciderlo e restituirne il cadavere nel vano di una Fiat 131 rubata
Oggi, dopo quarant’anni, Massimo ha ancora in testa quei momenti e la fine assurda di «zia Germana»: «Non aveva paura, nemmeno dopo l’attentato alla dottoressa, che appunto era una dottoressa, non un’operaia. Per noi era un’azione impensabile, e invece quei terroristi l’hanno pensata e portata a termine. Da vigliacchi. Hanno preso una donna del popolo, come Anna Magnani in Roma città aperta»
Massimo ricorda il funerale al quale volle partecipare il presidente della Repubblica Sandro Pertini, «in forma privata» recita il registro del Cerimoniale conservato al Quirinale: «Ci ha abbracciato commosso. Da partigiano aveva combattuto una guerra vera, ma nemmeno in quel contesto si fucilavano le donne. Con zia Germana invece l’hanno fatto, ed è stato un boomerang, perché dopo quel delitto la dissociazione dalla lotta armata ha preso ancora più piede. Insieme a zia Germana quegli assassini hanno ammazzato l’idea stessa della rivoluzione che dicevano di inseguire. Noi li abbiamo ignorati, senza odio né rancore. Hanno rovinato la nostra famiglia ma anche le loro, per le quali proviamo compassione».
Il contrappasso
I tre condannati all’ergastolo per l’omicidio Stefanini – Carlo Garavaglia, Francesco Donati e Barbara Fabrizi – arrestati quattro mesi più tardi a seguito di una fallita rapina a un ufficio postale, sono ancora in carcere dopo quattro decenni. Fanno parte di quella sparuta pattuglia di «irriducibili» che non hanno mai chiesto benefici (permessi, lavoro esterno o altro) non volendo instaurare alcun rapporto con le istituzioni. Anche a «guerra finita». Prigionieri del proprio sanguinoso passato.
Uno di loro fu processato (e infine assolto ) per aver rivendicato dalla cella l’assassinio del professor Massimo D’Antona, nel 1999, ma oggi sembra aver preso le distanze anche da quegli epigoni brigatisti. Un altro è ancora in regime di alta sicurezza, mentre Barbara Fabrizi, da qualche mese, è stata «declassificata» in media sicurezza. E coltiva l’orto, come faceva a suo tempo la sua vittima. Nello stesso penitenziario che oggi si chiama «Casa circondariale Germana Stefanini».
Una sorta di contrappasso, che Massimo non manca di sottolineare: «Ogni volta che deve fare una domandina alla direzione del carcere, nell’intestazione quella detenuta deve leggere o scrivere il nome di zia Germana. Va bene così».