La Lettura, 28 gennaio 2023
Intervista a Riccardo Chailly
F ra loro due ci sono 13 giorni di differenza. Che cadono in un fatidico 1953. Un giorno è l’anniversario di un grande compositore e l’altro il compleanno di un grande direttore d’orchestra: Sergej Prokof’ev (23 aprile 1891-5 marzo 1953) e Riccardo Chailly (20 febbraio 1953). Tredici giorni dopo che gli occhi del futuro maestro vedevano il mondo per la prima volta, quelli del compositore russo (ucraino di nascita) si chiudevano per sempre. Peraltro nello stesso giorno della morte di Stalin, che tanto lo ostacolò.
Chailly – che dal 2015 è direttore principale e dal 2017 direttore musicale della Scala, oltre a essere anche direttore principale della Filarmonica della medesima istituzione e dell’Orchestra del Festival di Lucerna e ad avere diretto nel corso della sua carriera tutte le compagini più importanti – dedica ora al compositore russo, di cui è sopraffino interprete, un omaggio importante. Domani 30 gennaio al Teatro alla Scala dirigerà, alla guida dell’Orchestra Filarmonica, la Prima e la Settima sinfonia e il Concerto per violino in re maggiore (solista Emmanuel Tjeknavorian) e poi partirà per una tournée europea (i dettagli nella scheda). «La Settima non risuona alla Scala – racconta Chailly a “la Lettura” – da quando la eseguì per la prima volta negli anni Sessanta Rudolf Kempe, proprio con l’orchestra del teatro».
Al maestro piace la coincidenza di date con il compositore. Lo fa sorridere. Anche perché quando ripensa al suo debutto alla Scala, c’entra, sebbene in maniera indiretta, anche Prokof’ev. Chailly cita una sua foto del 1978 con Claudio Abbado, davanti al camerino. «Per me è emblematica, perché è stata scattata un minuto prima del mio debutto ufficiale alla Scala, con I mansadieri di Verdi».
Maestro, cosa c’entra con Prokof’ev?
«Qualche giorno prima stavo provando L’angelo di fuoco di Prokof’ev al teatro Massimo di Palermo, quando mi è arrivata una telefonata di Claudio (Abbado, ndr) che mi dice: “Prendi il primo aereo, domani inizi le prove de I masnadieri”».
In quella foto lei sembra rilassato...
«Ero stato il suo assistente, la sua presenza mi diede un senso di distensione quel giorno».
Avrà però sentito gli occhi addosso…
«Eh, giovane sì, ma non incosciente».
Aveva studiato con Franco Ferrara.
«Ho avuto tre maestri di direzione d’orchestra. Piero Guarino al Conservatorio Morlacchi di Perugia, Franco Caracciolo a quello di Milano, preziosissimo docente che mi ha dato la tecnica, e Franco Ferrara per tre anni all’Accademia Chigiana di Siena, un fenomeno assoluto: eravamo tutti dei piccoli ingranaggi rispetto a lui. Con Ferrara abbiamo studiato la Sinfonia Classica di Prokof’ev, il mio primo passo in un universo sonoro che poi porterà a sette sinfonie».
Il brano che ricorda di più agli inizi?
«La suite sinfonica da L’amore delle tre melarance. L’ho anche incisa con la Junge Deutsche Philharmonie. Poi mi sono innamorato della sua Terza sinfonia che era stato il terreno di preparazione per L’angelo di fuoco. Con Prokof’ev ho fatto un percorso inverso: sono partito da quello che ha composto dopo, per poi arrivare all’opera completa».
Anche il suo percorso nella musica di Gustav Mahler è andato al contrario.
«Ho iniziato con la Decima sinfonia ricostruita da Derick Cooke nei primissimi anni Ottanta a Berlino, con l’orchestra della Radio di Berlino. Quello di Mahler è un universo straordinario che si potrebbe pensare come un continuum dalla Prima alla Decima, perché ogni sinfonia è la conseguenza naturale della precedente».
Senza pensarci troppo, il suo movimento mahleriano del cuore?
«A pelle e senza intellettualismi, l’ultimo movimento della Terza: tocca vette catartiche».
Un’incisione da non perdere?
«Quella di Dimitri Mitropoulos».
Dirigendo Prokof’ev, qual è l’errore in cui è più facile incorrere?
«Lo stesso delle sinfonie di Cajkovskij, cioè l’indugio nell’autocompiacimento».
Vale anche per Sergej Rachmaninov. Lei per esempio l’estate scorsa a Lucerna ha diretto la sua «Seconda», lontana anni luce dagli effetti hollywoodiani e mielosi che hanno snaturato questa e altre pagine russe.
«Sia Cajkovskij che Rachmaninov hanno sofferto per tante interpretazioni che hanno alterato il senso della loro musica. E questo pericolo esiste anche per Prokof’ev. Per cui ci vuole molta attenzione».
Prokof’ev aveva un’ossessione per la concezione del tempo. Ce ne parla?
«Era rigidissimo: con lui è inesorabile la scelta del tempo. Poi c’è la parte ossessiva, cioè quella metrico-meccanica che c’è in tutte le sue composizioni e poi lui ricordava la presenza dell’ostinato (una breve formula nel registro basso che si ripete identica, ndr). “Nella mia musica l’ostinato equivale a ossessione”, diceva. Era un aspetto che ha sempre messo in guardia e spaventato la critica».
Le chiediamo anche di un altro aspetto della scrittura di Prokof’ev: quel trascinare, stendere la tonalità fino al suo limite estremo.
«L’ha sfidata per tutta la vita, creandola a modo suo, in maniera conturbante, scomoda, provocatoria, sardonica, a volte tagliente, però salvandola sempre».
Ci fa un esempio specifico?
«Nel primo Concerto per violino (1917) c’è un momento in cui i violini primi eseguono una perfetta scala dodecafonica ascendente (e atonale, ndr), accompagnata da un magistrale sostegno armonico che è invece tonale, per cui chi ascolta non percepisce la serie, ma c’è».
Il carattere di Prokof’ev?
«Era molto saccente, molto arrogante, a volte scorbutico e aggressivo. Ha avuto una vita difficile, anni di emigrazione in America, poi il desiderio di rientrare in Russia con l’illusione di avere una libertà artistica. Fu accusato, come Šostakovic, di formalismo dall’apparato di Stalin».
In vita Prokof’ev ebbe anche un rapporto conflittuale con Igor Stravinskij.
«Fu un rapporto molto scomodo, di stima, ma sempre assai distante. Pure i loro stili in fondo sono molto differenti».
Anche nella loro ossessione ritmica.
«Se parliamo di ossessione ritmica, Stravinskij, che è un compositore che ho diretto molto più di Prokof’ev, è il maestro assoluto. Ma in un altro modo: non cerca l’ostinato a tutti i costi. La rivalità tra i due nacque quando Stravinskij ascoltò il collega virtuoso suonare il pianoforte nel 1907».
Amicizie con altri compositori?
«A Londra ha conosciuto Debussy, Ravel e Richard Strauss, ma queste conoscenze non sono mai diventate amicizie e nemmeno semplici frequentazioni. C’è stato un evidente e naturale isolamento nei confronti degli altri grandi autori».
Lei negli anni Ottanta ha diretto molto le sue musiche per «Alexander Nevskij», il film di Sergej Ejzenštejn.
«Una pagina memorabile. E l’ho anche incisa negli Stati Uniti, con l’orchestra di Cleveland. In quell’occasione ho avuto la fortuna di lavorare con Irina Archipova, leggendario mezzosoprano e contralto russo che in quegli anni rappresentava il mito del canto. Nel disco si sente questa voce nera, scura, profonda, con un senso davvero tragico del racconto. Lì ho capito il senso della libertà, del canto, di quanto Prokof’ev dovesse autorizzare l’interprete alla libertà espressiva».
L’esatto opposto di ciò che si è detto sull’ostinato e sull’ossessivo...
«Sì, e lo trovo molto illuminante, perché questi sono, alla fine dei conti, i due estremi nello stile del compositore».
Secondo lei, il fatto che Prokof’ev fosse anche un abile giocatore di scacchi ha influito sul suo senso della musica? Su una certa razionalità e iper-precisione nella scrittura?
«Può averlo influenzato dal punto di vista schematico del pensiero nella composizione. Però, uscendo dal gioco degli scacchi, quello che lui ha è la fantasia, la sapienza nel comporre. Questo è il dono che ha avuto dal Padreterno».
Parla di dono: per lei quanto conta il talento e quanto la ferocia dello studio?
«È inevitabile, giustissima la ferocia dello studio. Ancora oggi la quantità di ore e giorni che trascorro sul tavolo di studio, non si contano. Forse la propria abilità da interprete, da trasmettere poi ai musicisti dell’orchestra, sta proprio nell’avere saziato, almeno in parte, il bagaglio di conoscenze che uno deve avere prima di iniziare il percorso di prove».
Quando decide di rifare una sinfonia eseguita anni prima, come procede?
«Inizio da capo. Le mie partiture sono segnate con appunti vari da ormai un quarantennio, ma ogni volta aggiungo segni, ripensamenti, specialmente legati al senso di costruzione del movimento, della forma, della scelta dei tempi».
Nel momento preciso in cui riapre dopo anni una partitura, cosa accade?
«Mi ritorna subito tutto in mente, rivedo, risento tutto, anche se si tratta di cose fatte trenta o quarant’anni fa. La partitura è come una foto che mi riporta indietro, e mi fa tornare in mente anche gli errori fatti. Perciò è sempre un po’ traumatico, un passaggio sofferto. Rimettendosi a lavorare su una partitura si scoprono cose nuove che vanno anche contro ciò che si credeva fosse giusto dieci anni prima».
Per lei il lavoro che sta dietro alla direzione, dietro alle prove, dietro a tutto, il «prima» della musica insomma, in che cosa consiste?
«È importante chiedersi ogni volta una ragione interpretativa prima di arrivare alle note. Bisogna fare un percorso con sé stessi, di ricerca sull’interpretazione. Ed è fondamentale, altrimenti avremmo esecuzioni standard, da pilota automatico».
È a un passo dai 70 anni, cosa sente di avere imparato?
«Se ho imparato una cosa, è forse ciò che Bruno Walter chiamava maturità. Che cos’è la maturità? Per me è solo una cosa: la certezza di sapere quanto non si è imparato. Non è più un sospetto né un’impressione: è una certezza. È sempre questo che mi stimola più di tutto. A me dirigere non interessa come principio fondamentale: ciò che mi affascina e mi dà l’adrenalina quotidiana è la ricerca, lo studio di quel che non conosco. Questo è il punto di partenza: la direzione d’orchestra è la conseguenza».
L’adrenalina la sente ancora?
«Per fortuna sì, sempre».
Sogna spesso la musica?
«Quando accade è un incubo».
Come mai un incubo?
«Ho il sonno facile. E una delle poche ragioni per perderlo è la musica. Se mi capita di averne in testa, può essere causa inquietante di turbolenze notturne».
Senza volere scomodare Oliver Sacks e il suo «Musicofilia», si sveglia mai con una musica in testa che non ascoltava da anni?
«Questa mi manca, ma posso dire che se c’è un’arte che chiede di appartenere al mondo irrazionale, è la musica. È inafferrabile, spesso impossibile da spiegare».
A lei chi l’ha spiegata? Suo padre era un compositore...
«La musica c’è sempre stata in famiglia. Ricordo, quand’ero bambino, durante la notte, attraverso una parete che dava sul salotto, la musica che mio padre componeva al pianoforte verticale».
Ha avuto un bel rapporto con lui?
«È stato il mio primo severissimo docente di composizione. Era molto autoritario e non lasciava spazio alla libertà di pensiero. È stata dura, perché il rapporto padre-figlio già in sé è scomodissimo…».
Ci sarà un «ma» col senno di poi...
«Ma, proprio grazie alla severità e alla tenacia di mio padre, sono stato accettato subito nella classe di Bruno Bettinelli al Conservatorio “Verdi” di Milano».
Non ha mai avuto momenti di rabbia o astio nei confronti della musica?
«No! Anzi, la musica mi ha sempre soccorso nei momenti di difficoltà».
In un suo celebre scritto Elias Canetti sostiene che il direttore d’orchestra sul podio rappresenti l’impersonificazione del potere. Lei che cosa ne pensa?
«Oggi i giovani direttori lo negano ma c’è un potere e, prima di tutto, è un potere interpretativo. Che è quello di eseguire una musica in un certo modo, in una direzione piuttosto che in un’altra. E questo è un potere assoluto. C’è un piccolo dettaglio: il compositore dipende da questo potere che può essere la benedizione o la dannazione per la sua opera».
Lei in prova non alza mai la voce.
«Lo trovo abbastanza detestabile e ho imparato che è non solo sgradevole, ma impedisce inoltre di raggiungere il proprio obiettivo in musica».
Chi sono i colleghi che ha ammirato, oltre che musicalmente, anche da un punto di vista umano?
«Uno è ovviamente Abbado. Poi Herbert von Karajan, l’uomo che tanti temevano dal punto di vista caratteriale, nella sua distanza e impenetrabilità, e che invece ho frequentato nei miei anni di Berlino con il privilegio di avere accesso alle sue prove e alle incisioni. E poi Pierre Boulez. Veniva spesso ai miei concerti e poi passava in camerino. Una volta è arrivato a Salisburgo, quando dirigevo la Sinfonia Classica di Prokof’ev e La sagra della primavera di Stravinskij. Ero preoccupato del suo giudizio ma lui disse: “La cosa che mi ha interessato di più è stata la Classica di Prokof’ev, che non ascoltavo dai tempi del Conservatorio. Grazie”».
Sempre più giovani, a volte anche impreparati, vogliono dirigere...
«Vedo grandi esecutori che dall’oggi al domani passano alla direzione. Io ho studiato 10 anni per iniziare: non si improvvisa la direzione, anche perché gli orchestrali percepiscono dopo meno di un minuto, da come viene dato il levare, se il direttore ha studiato o se è autodidatta».
Una delle magie della direzione è il gesto, un movimento che crea musica. Qual è quello più elegante che ricorda?
«L’eleganza è un tratto che ha toccato sicuramente Abbado, Karajan e, come nessun altro, Carlos Kleiber. Il gesto deve essere in grado di raccontare l’interpretazione... Ricordo la gestualità splendida di Leonard Bernstein e di Seiji Ozawa».
In termini di essenzialità invece?
«Avevano un gesto scarno ma molto efficace Bernard Haitink ed Eugen Jochum. Un altro direttore, con un gesto apparentemente semplice, era Rudolf Kempe. Aggiungo Wolfgang Sawallisch».
Si parla sempre poco di un altro grandissimo direttore, che fra l’altro aveva un gesto essenzialissimo, Evgenij Mravinskij.
«Se parliamo di asciuttezza dei gesti lui è l’estremo massimo: non aveva quasi necessità di muovere le braccia, tanta era la forza tellurica della sua presenza fisica e del suo sguardo. La severità di quegli occhi, il tono di voce sempre bassissimo... la Quinta e la Sesta di Cajkovskij ascoltate alla Scala nel 1971...».
Abbiamo cominciato con Prokof’ev, chiudiamo allora anche con lui. «Pierino e il lupo» è l’opera classica più nota a chi non frequenta la musica classica. Che cosa rappresenta per lei?
«Un miracolo di freschezza e bellezza. Quello che trovo importante è che nella Settima, composta nel suo ultimo anno di vita e specialmente nel finale, Prokof’ev fa ritornare, riemergere lo humour di Pierino e il lupo. Cajkovskij, all’opposto, ci ha lasciato invece con la pagina più desolata che sia mai stata concepita: il finale della Patetica, che è il trionfo della tragedia, una marcia funebre progressiva. Prokof’ev, al contrario, lascia il mondo della musica con il sorriso sulle labbra, tra il sarcasmo e l’autoironia».
Se potesse fare una domanda, una sola, a Prokof’ev, cosa gli chiederebbe?
«Per Romeo e Giulietta ha scritto tre suite che ogni direttore può assemblare come desidera. Gli chiederei quale sarebbe stata la sua selezione vincente».