La Lettura, 28 gennaio 2023
Il museo nella metro di Napoli
Forse, è il più bel museo d’arte contemporanea d’Italia. È nato nel 1995, ed è in divenire. Non ha una sede, ne ha tante. Non presenta sale chiuse, ne ha molte. È dilatato, diffuso, senza centro. Si sviluppa tra tunnel e aperture, dal centro alla periferia. Si snoda in superficie e lungo cammini sotterranei. Si confonde con le voci della città, sempre più simile a una fitta punteggiatura che cresce in maniera disorganica. Ed è continuamente contaminato dall’imprevedibilità dei gesti di chi la percorre, traiettorie impazzite, non troppo diverse da quelle di un dripping di Pollock. Le sale di questa dilatata pinacoteca: stazioni e palazzi interamente affrescati. Questo museo involontario si trova a Napoli. Basta pagare pochi euro per vivere un’esperienza irripetibile, ideata con slancio visionario da Achille Bonito Oliva. La Linea 1 della metropolitana è stata concepita non solo come un mezzo di trasporto. Le stazioni sono state pensate come spazio ibrido, dove, sul modello dei cantieri rinascimentali, architetti e artisti hanno condiviso strategie, alimentando feconde corrispondenze. Qualche esempio: Tusquets Blanca e Kentridge, Wilson, Toscani, Neshat, Kabakov e Clemente (Toledo); Aulenti e Alfano, Kosuth, Pistoletto, De Maria e Kounellis (Dante); ancora Aulenti e Jodice (Museo); Mendini e Serafini, Spalletti, Ontani, Bianchi, LeWitt (Materdei); ancora Mendini e Barisani, Paladino, Dalisi, Cucchi, Tatafiore e Gianni Pisani (Salvator Rosa); Michele e Lorenzo Capobianco e Mario Merz, Vettor Pisani, Barbieri, Paolini, Botta e Zorio (Vanvitelli).
Il progettista ha disegnato la cornice, che è stata riattivata da installazioni site-specific di artisti lontani dal punto di vista generazionale ed espressivo, impegnati a trasgredire il perimetro tradizionale dell’opera, pronti a confrontarsi con le infinite seduzioni della città: hanno coperto le facciate con affreschi, inventato bizzarri parchi giochi, invaso gli ambienti con figurazioni e segni astratti. Si riarticola così la filosofia di queste pratiche. L’architettura non si dà come mero involucro; l’arte non si mostra come decalcomania. Attraverso tensioni, contrasti e slittamenti, i due territori interagiscono. Incuranti di ogni gerarchia, si pongono sullo stesso piano, elaborando una drammaturgia di simboli eterogenei. Pur conservando la propria identità, convivono all’interno di quella metropoli inintenzionale, contraddittoria, saggia, folle e maledettamente poetica che è Napoli.
Senza soluzione di continuità, architettura e arte si intrecciano in un infinito intrattenimento. Fino a riscoprirsi discipline sorelle, accomunate dal bisogno di prendersi cura del corpo stratificato ed esausto di questa polis sperimentando originali ipotesi di riestetizzazione urbana. Palestre del pensiero e delle immagini. Strumenti straordinari per alimentare, in ogni abitante, senso delle radici, coscienza civile, rinnovata dignità, consapevolezza di appartenere a una comunità. Luoghi di transito e di sosta, di nomadismo esistenziale e di stasi contemplativa, le stazioni sono diventate così arene attraversate da diverse turbolenze linguistiche. E, soprattutto, teatri per autentiche cacce al tesoro. Sculture, fotografie e quadri non sono lì dove ci attenderemmo. Sono sorprendenti inciampi visivi. Ci vengono incontro quando meno ce lo aspettiamo. Al di là dei binari del treno, mentre siamo sulle scale mobili, prima di uscire su una piazza, sulle mura di un palazzo. Come accade negli open-air museum, l’arte è ovunque. Eventi pubblici, le opere non sono più fruite frontalmente, ma vengono viste da tutti i lati, in fuga, distrattamente. Per riprendere un’idea di Walter Benjamin, sono come proiettili lanciati contro gli spettatori, in grado di violare sicurezze e aspettative di senso.
Siamo dinanzi a un unicum a livello internazionale, tra le tappe più ricercate dai turisti (si calcola un milione di potenziali visitatori ogni anno). Un hub della creatività che, per evitare di deteriorarsi, ha bisogno di essere gestito, oltre che da ingegneri, da curatori, conservatori, mediatori culturali, social media manager. Professionisti che conoscano la storia dell’arte, sappiano tutelare, manutenere e restaurare le opere, siano in grado di valorizzare e di comunicare questo patrimonio, propongano materiali aggiuntivi ed esperienze ulteriori: cataloghi ragionati, materiali informativi, virtual tour. È questa la ragione per la quale il Comune di Napoli sta lavorando all’istituzione del Mam (Museo aperto metropolitana).
Una sala ulteriore di questa pinacoteca senza pareti è rappresentata dalla stazione di Monte Sant’Angelo della Linea 7 della Metropolitana regionale di Napoli (realizzata dalla Eav), che «la Lettura» ha visitato in anteprima. Si tratta della bretella di collegamento tra la Ferrovia Circumflegrea e la Ferrovia Cumana, che verrà inaugurata nei prossimi mesi. Ne è autore Anish Kapoor, il quale, nel 2005, ha accettato con entusiasmo una sfida difficile. Non si è limitato a disporre le sue installazioni dentro un contenitore. Né ha eseguito più o meno efficaci decorazioni. Ha indossato gli abiti dello scultore-architetto, disegnando la stazione in tutte le sue parti. È nato così una sorta di «bel composto» (per riprendere un’idea cara a Bernini): una creazione totale, ibrida e aperta, all’interno della quale convergono pittura, scultura e architettura. Un’opera a due facce. L’ingresso è nel cuore del campus di Monte Sant’Angelo dell’Università Federico II. Una gigantesca forma arrotondata in acciaio corten, fatta di 74 pezzi irregolari saldati, con colore effetto ruggine (220 tonnellate, larghezza di 21 metri, lunghezza di circa 42 metri, altezza di 19 metri). Tante le analogie possibili. Una conchiglia. Una vulva. Una bocca. Un disco volante. Un serpente avvolto nelle sue spirali. Un labbro gommoso. Una nuvola solida. Un mollusco arcaico e futuribile. Si scende. Ed è come entrare negli inferi. Cunicoli ricavati nella terra, con pareti «informi» e passamanerie di luce.
L’uscita è a viale Traiano, in una zona difficile. Una scultura in alluminio, a curvatura tridimensionale, composta da 10 tessere fuori sagoma. Come un monumentale 8 o come una ciambella sospesa o anche come un canotto inclinato, per metà sotto il livello stradale (il peso complessivo è di 42 tonnellate, larghezza 12 metri, lunghezza 39 metri, altezza 11 metri). Astronavi che, come in un film di fantascienza, sono atterrate in un quartiere popolare come Soccavo. Sagome rigorose, morbide e sensuali, che intrattengono con il contesto un rapporto di distanza critica. Macchine plastiche ambigue che, pur solenni e compatte, si sottraggono a ogni rigidità, decretando il trionfo della geometria del curvo.
I «blocchi» esterni si aprono, per introdurre in territori incerti, segnati dal sottile nesso tra antitesi. Pesante/leggero. Concavo/convesso. Una scelta in sintonia con la poetica di Kapoor, secondo il quale solo nella dualità vive l’energia della forma. «Le opposizioni binarie – ama ripetere – sono gli elementi propri della condizione umana».
In filigrana, tante fascinazioni. Il mito, la letteratura. Innanzitutto, Dante e la Commedia. Che Giorgio Manganelli ha descritto come una «corsa stremante tra luci e tenebre, (...) lune, soli, misteriosi frammenti di edifici regali e sacri». Il percorso è indecifrabile, come «uno strisciar tra cunicoli ed antri», costellato di anime che si contorcono dentro una materia ribelle a ogni ragione. Fino all’incontro con l’abbacinante «meridiana luce».
Memore di questo viaggio dalle Malebolge alle stelle, Kapoor ha detto: «L’idea era di rivoltare il tunnel come un calzino. Questo si ricollega al mio interesse per il ribaltamento dello spazio. Nella città del Vesuvio e dell’ingresso all’Inferno di Dante, ho provato a confrontarmi con il vero significato dell’andare sottoterra».