La Lettura, 28 gennaio 2023
All’Italia servono più immigrati
Nel 2022 l’Italia perderà meno di 200 mila abitanti, forse 170 mila, grazie a un ritorno del saldo migratorio, dopo gli anni pandemici, a sua volta ben sopra le 200 mila unità, forse 230 mila.
L’aggiornamento dei dati del movimento della popolazione italiana, per quanto assai sollecito da parte dell’Istat, e di ciò dobbiamo dare atto al nostro Istituto centrale di statistica, arriva fino al 31 ottobre 2022. Abbastanza, comunque, per azzardare previsioni dell’anno appena trascorso che, se non puntualmente precise, senz’altro lo saranno sostanzialmente.
Senza il movimento migratorio perderemmo dunque nel 2022 400 mila abitanti. Dato nient’affatto eccezionale considerando che tra l’inizio del 2019 e il 31 ottobre 2022, e dunque in neppure quattro anni, la popolazione italiana ha perso 950 mila abitanti che sarebbero saliti a 1,6 milioni senza il saldo positivo del movimento migratorio con l’estero. Insomma, l’Italia perde tra i 200 e i 250 mila abitanti l’anno solo perché il movimento migratorio con l’estero è positivo di 150-200 mila unità all’anno; in caso contrario di abitanti ne perderebbe almeno 400 mila l’anno. Fatti i conti, arriveremmo di conseguenza alla fine del secolo con una popolazione ultra vecchia di 25-28 milioni di abitanti avviata verso una sostanziale sparizione.
L’Onu, in una recentissima pubblicazione (World Population Prospects 2022. Summary of Results) certifica, papale papale, che per i prossimi decenni la sola leva sulla quale potranno contare i Paesi ad alto livello di reddito sarà appunto quella dell’immigrazione: «Over the next few decades, migration will be the sole driver of population growth in high-income countries». Ciò vale massimamente per l’Italia, il Paese con la più bassa natalità dell’Unione Europea e uno dei Paesi al mondo con il più basso numero medio di figli per donna.
Ciò non vuol dire, ovviamente, che non si debbano attuare politiche nataliste, classiche e meno, per cercare di aumentare natalità e fecondità. Saranno benedette, anzi, se verranno. E, a questo riguardo, stiamo anzi aspettando una esplicitazione delle linee di intervento che il governo intende perseguire – un po’, per capirci, sul tipo di quanto messo nero su bianco dal ministro Carlo Nordio in tema di giustizia. Vuol dire però, molto realisticamente, che Paesi come l’Italia possono ricavare dal movimento migratorio ben più di quanto non possano aspettarsi di ricavare, anche con le migliori intenzioni del mondo, dal movimento naturale della popolazione determinato dalla differenza tra nati e morti.
Aumentare le nascite si sta rivelando infatti impresa difficilissima, e non a caso anche nel 2022 esse diminuiranno ancora, come ormai fanno indefessamente da una dozzina di anni durante i quali ne abbiamo lasciate sul terreno quasi un terzo, scendendo sotto la soglia che sembrava impossibile anche soltanto da sfiorare delle 400 mila nascite l’anno. D’altro canto, non è realistico in una popolazione come quella italiana, che non fa che diventare più vecchia anche in ragione delle nascite che mancano all’appello, aspettarsi una contrazione del numero dei morti.
Così, se al saldo naturale delle nascite meno i morti si può chiedere, al più, di non assumente dimensioni catastrofiche di un numero di morti doppio del numero dei nati (non ci siamo poi così lontani, purtroppo), al saldo migratorio con l’estero si può e si deve chiedere di assumere un livello annuo tale da tenerci almeno in linea di galleggiamento. O, com’è più pertinente dire: da assicurarci di atterrare con il paracadute, nella nostra continua perdita di abitanti, piuttosto che schiantarci al suolo senza più possibilità di rialzarci.
Si ha un bel dire del movimento migratorio. Fatte tutte le debite considerazioni – ch’è più ancora che giusto doveroso fare, intendiamoci – l’Italia non può prescinderne, perché dalla dimensione del saldo migratorio attivo con l’estero dipende in larga misura il destino prossimo e a più lunga scadenza del Paese.
Per scendere all’atto pratico. L’Italia potrà sperare in un dimagrimento demografico consistente, ma non esiziale, solo se il saldo del movimento migratorio con l’estero sarà positivo nella misura di 200-250 mila unità all’anno. Si perderanno così non più di 200 mila abitanti l’anno e, in virtù della minore età media degli immigrati, si eviterà una decrepitezza della popolazione italiana che precluderebbe ogni orizzonte. Diversamente, se per ipotesi quel saldo dovesse posizionarsi sotto le 100 mila unità annue, non solo perderemmo 10 milioni di abitanti in più entro la fine del secolo, ma dovremmo fare i conti con una proporzione di donne in età feconda di 15-50 anni, ovvero con la potenzialità delle nascite in essa contenuta, talmente esigua da precludere ogni vitalità demografica a venire.
Ecco dunque in estrema sintesi la scelta che dovremo fare. Ci accontenteremo di un saldo attivo del movimento migratorio entro le 100 mila unità o non proveremo a spingerci fino a 250 mila unità all’anno? Tra queste due cifre si esplicita la differenza tra lo schiantarci e l’atterrare al suolo con tanto di paracadute.
Certo, la scelta che sulla carta sembra immediata, nella realtà è ben più problematica. Programmare (giacché i flussi migratori non potranno prescindere in futuro da logiche di programmazione), distribuire per quanto è possibile su tutto il territorio nazionale, integrare economicamente e culturalmente – ma prima di tutto economicamente, perché non può esserci un’integrazione culturale senza quella economica – i flussi dei migranti, specialmente di quelli extracomunitari, richiede consapevolezza e politiche di grande consistenza e sensibilità, umana oltreché tecnica, ben più abbordabili con meno di 100 mila piuttosto che con 250 mila stranieri in più ogni anno. Ma si tratta di una scelta obbligata, per evitare il declino irreversibile della popolazione italiana.
E un’ultima cosa. Un’avvertenza. La logica della programmazione dei flussi in entrata dei migranti dovrà accompagnarsi anche a una logica redistributiva degli stessi, se vogliamo almeno provare a scongiurare lo svuotamento del Mezzogiorno. Mezzogiorno che nel quadriennio 2019-2022 ha perso oltre il 2,4 per cento della sua popolazione contro meno dell’1 per cento perso dal Nord. Nel Mezzogiorno si nasce ormai agli stessi ritmi se non perfino inferiori del Nord, ma i movimenti migratori (anche interni, tra regioni, non solo quelli provenienti dall’estero) approdano con ben altra frequenza al Nord, mentre si fermano assai poco al Sud e nelle Isole.
L’Italia ha, per così dire, una fortuna, rispetto agli altri Paesi della stessa Unione Europea: un’economia manifatturiera assai diffusa che predispone a un’analoga diffusione dei migranti sul territorio italiano. Nel nostro Paese ogni 100 abitanti ci sono 11,6 stranieri residenti nei 107 capoluoghi di provincia ma anche 7,5 nel resto di tutti gli altri comuni italiani. Non abbiamo, per capirci, aree ingolfate di stranieri ed altre senza stranieri neppure in effigie.
Ma l’economia manifatturiera, fortissima al Centro-Nord, lo è assai meno nel Mezzogiorno, cosicché la popolazione straniera si attesta qui al 4,4 per cento degli abitanti, contro l’11 per cento che rappresenta nel Centro-Nord. Una differenza che si amplia nel tempo piuttosto che ridursi e che minaccia di discriminare quanto di più non si potrebbe i destini delle due ripartizioni territoriali: con il Mezzogiorno che davvero si schianta al suolo mentre il Centro-Nord aziona il paracadute del movimento migratorio e tutto considerato se la cava.
Ma può il nostro Paese, l’Italia, reggere una divaricazione a tal punto esiziale da diventare al tempo stesso geopolitica e antropologica? Trattasi di interrogativo che non può essere semplicemente consegnato al domani, quando sarebbe già troppo tardi. È questione urgente dell’oggi.