il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2023
Il futuro non è buono per Wall Street
Nel 2022 l’orso l’ha fatta da padrone sui mercati azionari intralciando un cammino di oltre 10 anni filati del suo alter ego finanziario, quel toro con cui vengono identificate le fasi rialziste. Toro che è il simbolo stesso di Wall Street con tanto di statua turistica alle porte della Borsa di New York. Gli investitori sono ormai abituati a visualizzare l’andamento delle azioni come una sorta di staffetta tra queste due metafore, un’alternanza tra rialzi (dove vince il toro) e ribassi (dove prevalgono i muscoli dell’orso). Ma forse è tempo di uscire da questo schema e chiamare in causa un terzo rappresentate della categoria: il cammello. Perché c’è la crescente possibilità che il grafico dell’indice S&P 500 nei prossimi anni possa assumere una conformazione simile alle gobbe dell’animale desertico. C’è in sostanza il rischio che l’indice della più grande Borsa al mondo entri in una sorta di trading range poliennale. Un po’ su e un po’ giù. Senza andare in realtà in nessuna precisa direzione. Del resto non sarebbe la prima volta. Il passato ci insegna che il cammello fa visita ai mercati più spesso di quanto non si creda. Se osserviamo l’andamento dell’indice Dow Jones – il più antico rappresentante della Borsa americana – scopriamo che, pur all’interno di un trend secolare impostato nettamente al rialzo, ha vissuto tre lunghi momenti da “cammello”. Tra il 1900 e il 1920 a conti fatti l’indice non è andato da nessuna parte, così come tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni ’80. Le gobbe del cammello si sono riviste anche più di recente, tra il 2000 e il 2010. Lunghi periodi di alti e bassi, privi di una vera direzionalità. C’è chi parla di queste fasi – richiamando quanto accaduto ad inizio del millennio – come delle parentesi di “decennio perduto” per gli investitori del mercato azionario. Una sindrome che non fa eccezioni geografiche. Ne sanno qualcosa gli investitori nipponici con l’indice di Tokyo praticamente privo di performance per svariate stagioni dopo gli anni ’90. E che dire di Piazza Affari che da oltre 10 anni prova a fatica a superare la “soglia maledetta” dei 25mila punti, che in ogni caso è posizionata il 50% più in basso rispetto ai massimi del 2000?
Insomma, se ne parla poco ma il cammello è una presenza da non sottovalutare anche quando si investe nell’azionario, magari perché guidati dal mantra che nel lungo periodo le azioni salgono sempre. La storia ci insegna che è vero nel lunghissimo (dove prevale il principio inossidabile che l’economia tende a crescere, guidata dall’aumento della produttività e della marginalità degli attori quotati in Borsa) ma se per lungo periodo intendiamo 10-20 anni non è poi così scontato (perché l’economia è fatta di cicli, anche avversi, che vanno altrettanto rispettati).
Detto ciò, come mai Wall Street in particolare rischia un nuovo di incartarsi graficamente in una fase laterale, in stile “decennio perduto”? Se osserviamo l’equity risk premium, un indice che mette in relazione il vantaggio di assumersi i rischi del mercato azionario rispetto al più “sicuro” mercato obbligazionario, notiamo che esso è vicino ai massimi storici per quanto riguarda l’indice S&P 500. Questo perché le obbligazioni si sono risvegliate dal loro letargo e dalla droga delle banche centrali che ne avevano azzerato i tassi per immettere liquidità e mettere una toppa alla bolla subprime scoppiata nel 2008. Da allora è partita una fase toro culminata con il motto “there is no alternative” (sottinteso al mercato azionario). Ora che le banche centrali sono state “costrette” ad alzare i tassi le obbligazioni, dopo aver vissuto il 2022 come il peggiore della loro storia, sono tornate ad esprimere interessi attraenti, tanto lato istituzionali quanto retail (un esempio arriva dai recenti successi dei collocamenti dei BTp Italia e dello stesso ultimo bond Eni rivolto alle famiglie). Quindi ora, con tutti i rischi del caso relativi all’eventualità di una seconda ondata inflattiva che non farebbe bene neppure ai bond, l’alternativa pare sia tornata. Secondo punto di debolezza potenziale per l’S&P 500 nel futuro: le quotazioni negli ultimi anni sono state trainate dai buy back, ovvero dal riacquisto di azioni proprie da parte delle stesse società. Se i tassi dovessero restare alti per un po’, i bond rappresenterebbero un “ostacolo” anche a queste politiche di sostegno alle azioni. Terzo punto: i lunghi bull market sono stimolati dall’aumento della liquidità mentre ora siamo in direzione opposta, il tightening della Fed e non sappiamo per quanti anni durerà.
Anche per queste ragioni gli analisti di Gmpc in un report scrivono: «Prevediamo un andamento laterale, una figura ad alti e bassi, nel decennio 2020-2030, similmente a quanto accaduto negli anni ’70». L’arrivo del cammello. E l’inflazione? «Siamo entrati probabilmente in una fase che ricorda quella vissuta tra il 1968 ed il 1982 – spiega Stefano Bottaioli, consulente finanziario e responsabile territoriale Finint private bank -. Anche allora ci fu una iniziale esplosione al rialzo dell’energia in primis (come questa volta) che spinse al rialzo l’inflazione piegando le gambe ai mercati (come questa volta). In quel periodo ci furono tre ondate inflattive crescenti: dopo la prima ondata ci fu un apparente periodo di inflazione calante ma poi iniziò una nuova onda al rialzo e poi ancora una terza sul finire degli anni ’70. In quel periodo il Dow Jones perse in realtà solo il 7% lateralizzando con cicli rialzisti e ribassisti brevi ma violenti. Quel 7% di perdita (potremmo dire che fu tutto sommato sopportabile) in realtà fu un -70% in quanto l’inflazione si mangiò il valore reale dell’investimento». Nessuna certezza, né sfera di cristallo. Ma orso e toro farebbero bene a guardarsi le spalle dall’arrivo del cammello.