La Stampa, 27 gennaio 2023
La fine del Polo Nord
Ah!, i bei tempi in cui, nella sfortunata lotta contro la quotidianità a lui ostile, il cronista Salgari, messi da parte per una volta corsari e tagliatori di teste, immaginava nientemeno! che una sfida al Polo nord in automobile. Da vincere con una ‘"Thomas’’ da sessanta cavalli modificata, ovviamente, con balestre rinforzate per resistere ai sobbalzi saltando da un “hummocks’’ all’altro. Nel carburatore, contro il rischio di congelamento, un antigelo realizzato mescolando una metà d’acqua e una metà di acquavite di grano, intingolo certificato in grado di resistere fino a sessanta gradi sotto zero! Con “pneumatiche’’ coperte di pelle per evitare le basse temperature del pack, tenendo di riserva quelle con i chiodi, adattissime per gli sgeli. Nel carrozzone artico comodi letti, stufa che brucia essenze minerali, e una biblioteca per non annoiarsi troppo quando, lì succede, si è assediati dagli orsi.
La conquista del Polo… Che posto cimmerio, pre umano che sa di cosa appena creata e che un parto sterminato ha consegnato a una immobilità gelida e faticosa. Un luogo in cui perfino la fantasia più sfrenata, come quella del cronista dell’Arena, dovrebbe arrestarsi, intimidita e pensierosa. Che autorizza, al più, la registrazione di un sussulto inquieto, più vicino allo sgomento che all’angoscia. Conquistarlo per cosa poi? Spazi geopolitici? Ricchezze nascoste oltre il limite boreale? No: per una donna, uffa! fatica banale e ghiacciata, che non vale la bella miss Ellen spregiudicata e un po’ troppo frivola.
Povero Salgari: neppure lui che pensava di poter inventare tutto si era accorto che in quel 1909, la Belle Époque e il progresso scivolavano verso il Macello, qualcuno al Polo era arrivato davvero, anche se non comodamente in automobile. Tanto che dovette per Bemporad editore in Milano, che esigeva fantascienza non cronaca, aggiungere e correggere il primo manoscritto. E non immaginava che quella conquista, quella vera, nascondesse livori, bugie e colpi bassi assai più maligni di quelli che aveva attribuito ai suoi due contendenti, l’americano Torpon e il canadese Montcalm. Salgari fa vincere il canadese. Che già covasse in redazione qualche palpito di precoce anti yankee?
L’americano vero, Robert Peary, che proprio quell’anno annunciò di essere arrivato per primo al Polo «realizzando un sogno lungo quattrocento anni» e completando la carta geografica del mondo, aveva rubato la gloria a un altro statunitense, l’umile Cook, con una campagna ben orchestrata di bugie, amici influenti e propaganda. Tutte le terre che pretendeva di aver scoperto, e intitolato a sé stesso, il canale di Peary, la terra di Peary, il mare della Groenlandia orientale già nel 1916 furono cancellate dalle carte geografiche. E un esploratore che volle, incauto, usare le sue mappe illusorie morì inghiottito dai ghiacci. Questo non ha privato Peary della gloria di riposare ad Arlington nel cimitero degli eroi americani.
Il Nord e la sua materia marina, dunque fatta di freddo e di liquido ferro. E non solo. In fondo lo inglobava la creatura dell’epoca malvagia, il gulag, la sua climatologia conduceva nell’abisso dell’obitorio staliniano. Ora sfogliamo un libro denso, premonitore e inquietante appena uscito per Neri Pozza, Guerra bianca, scritto da Marzio Mian; che il tetto del mondo, dove i meridiani si incontrano e da cui si può andare solo verso sud, lo ha percorso davvero, per descriverlo e analizzarlo. E racconta ciò che neppure Salgari ha osato immaginare, che la guerra sta per arrivare o è già in corso lì dove tutto dovrebbe essere come sempre è stato, cioè miracolosamente senza Storia, al riparo dalla brutalità umana. E sarà il fronte, forse quello principale e più aspro, della Quarta guerra mondiale ormai in corso.
Tutto è pronto, Putin schiera le sue truppe migliori e l’arsenale apocalittico qui e non nelle pianure ucraine, la Nato avanza le pedine, Svezia e Finlandia uscite dalla neutralità, per stringere in nodo artico. Geopolitica? Soprattutto ricchezze minerarie, ricchezze favolose che il disgelo spalanca; e il quinto oceano che si apre alle flotte da guerra e alle rotte di lucrosi commerci.
Eppure questo è un luogo in cui lo spazio assorbe il tempo e lo materializza. Un luogo di percezione pura dove il paesaggio è mistero, fitto di geologie lunari. La immensità delle catastrofi che la natura vi allestisce, le montagne di ghiaccio che si spaccano, gli iceberg che si capovolgono in naufragi quasi metafisici, le scogliere che scivolano in acqua con fracassi immani che subito si spengono nel silenzio: tutto è sublime eccesso, l’uomo con le sue piccole beghe, le sue ideologie funeste vi appare come insetto inutile, appena molesto.
Perfino gli animali che vi resistono, gli orsi bianchi, le balene, conservano qualcosa di metaforico, misterioso, insondabile, quasi sopravvivenze di bestiari fantastici. Percorrere da isola a isola, navigare un mare dai riflessi di acciaio è come andare verso un luogo che è insieme natura e simbolo. Dove finisce il nord? non finisce mai. Perfino l’esatto Polo matematico, i novanta gradi, sono una astrazione sfuggente, mobile poiché la banchisa muovendosi la sposta. In realtà Cook non è mai davvero arrivato al Polo nord. Solo a una sua sfuggente illusione. Che senso ha dunque rivendicare qui frontiere, limiti, tracciare intangibili possessi nazionali? In questo luogo illuminato da un sole che abita la notte l’uomo non può che essere fossile o relitto.
Kant non per nulla disegnava l’antropologia dei suoi rari abitanti, eschimesi, inuit, come prova della genialità del Creatore: piccoli per non disperdere calore, la faccia piatta per non dare appigli al freddo, glabri per non avere peli che ghiacciano. Come nei quadri di Friedrich, pittore sublime di ghiacci e banchise tremolanti, i fatti della Storia qui sono la ricerca suicida di passaggi mitici nel Nulla gelato, a nord ovest e a nord est. La tragedia dell’"Erebus’’ a metà dell’Ottocento, nave stritolata dal ghiaccio con il suo equipaggio di esploratorie e geografi che come fantasmi si avviano a piedi nel deserto bianco. I cadaveri li hanno trovati venti anni fa: incorrotti per l’immortalità che il gelo sa donare alle carni, occhi che guardavano l’eterno con una minerale fissità.
La guerra appare ancor più criminale in un luogo di assoluta pietrificazione che sollecita da sola fantasie di Apocalisse. Immaginate relitti di carri armati e missili che presi nel ghiaccio avranno, dopo secoli, la consistenza di ritrovamenti arcaici di un remoto evo a venire, il senso di una follia che è diventata morte fredda, immobile, perenne e addirittura conservatrice.
Nell’arcipelago di Francesco Giuseppe, nel mar Glaciale, un atollo ricorda un esploratore artico, il norvegese Nansen, premio Nobel della pace nel 1922. Riconoscimento che meritò non per avere, per primo, attraversato la Groenlandia a piedi; ma perché inventò un piccolo documento con l’insegna della Società delle nazioni, sfortunata premessa dell’Onu nel primo dopoguerra. Salvò, questo suo passaporto, la vita di milioni di migranti che fuggivano fame e caos del primo conflitto mondiale. L’Artico si coniugava con la pace. —