la Repubblica, 27 gennaio 2023
Intervista ad Alessandra Verni, la mamma di Pamela Mastropietro
Alessandra Verni accetta di parlare davanti alla panchina rossa dedicata a sua figlia nel giardino di Piazza Re di Roma, a sud della capitale. «Pamela è stata uccisa a 18 anni da un demone e dai suoi complici, fatta a pezzi e nascosta dentro una valigia», la sua voce è ferma mentre strappa le erbacce attorno alla targa commemorativa. Il demone è Innocent Oseghale, condannato in due gradi di giudizio all’ergastolo per il femminicidio di Pamela Mastropietro del 30 gennaio 2018 a Macerata. Resta imputato in un appello-bis per la violenza sessuale. Un terzo processo che mette a rischio la condanna all’ergastolo. La mamma di Pamela sul telefonino ha le foto dell’orrore: «Impressionanti, vero? Pensi a cosa significa per me vivere ogni giorno con queste immagini nella testa e sapere che quel mostro potrebbe tornare libero».
Cosa teme?
«Se non riconoscono la violenza sessuale quel demone può beneficiare di una condanna a 30 anni. E, cosa peggiore, potrebbe tornare libero in anticipo con sconti di pena. Non voglio che il mostro faccia male a altre donne, deve restare in carcere per tutti i giorni della sua vita».
Quelle foto shock le ha fatte stampare su una maglietta bianca che ha indossato all’ultima udienza.
«Sono stata costretta da uno Stato che mette in dubbio che Pamela sia stata stuprata. Indossare quella maglietta e mostrarla al mondo intero è stata dura. Anch’io mi sono sentita violentata. Non mi interessano le critiche di chi ha giudicato le foto troppo morbose, soprattutto dopo 5 anni in attesa di una giustizia che non arriva».
Perché questa protesta?
«Quando la Cassazione ha chiesto un nuovo processo sulla base di “un vizio sul consenso”, ho ripensato al corpo straziato di Pamela e al sogno in cui lei mi ripeteva “Mamma non pensare al corpo, io sono viva”. È stato in quel momento che ho trovato la forza e ho deciso che tutti dovevano vedere e rendersi conto di quell’orrore. Sono pronta a altri gesti estremi per mia figlia».
Lei chiede che si facciano ancora indagini.
«Pamela non è stata uccisa da un solo uomo, ne sono certa. Sul suo corpo e sui trolley sono stati trovati almeno altri due Dna. Perché le indagini si sono fermate? La morte di mia figlia non si può liquidare così».
Crede che otterrà giustizia?
«Giustizia? Non sono per niente soddisfatta fino ad ora. Hanno rimesso tutto in discussione dopo due gradi di giudizio».
In aula ci sono stati momenti di tensione con Oseghale. Cosa è scattato in lei?
«Sono una mamma alla quale hanno massacrato una figlia. Appena si è avvicinato l’ho sentito dire “Basta oppressione giudiziaria”. È montata la rabbia. Gli ho detto di guardarmi in faccia e di ripeterlo. Lui ha iniziato a farfugliare qualcosa in un inglese incomprensibile. Ma lui parla benissimo italiano, non si voleva farcapire da me».
Pamela stava curando una patologia borderline. È scappata dalla struttura il giorno prima dell’omicidio. È mancata una rete assistenziale?
«Assolutamente sì. Non c’era un percorso per mia figlia, lo psichiatra lo vedeva una volta a settimana. Lei non mi ha confidato alcun malessere per non darmi pensieri. Ma se è scappata è perché stava male».
Lei ha mantenuto intatta la stanza di sua figlia.
«C’è tutto il suo mondo checondivideva con me. Spesso indosso alcuni suoi vestiti e anche l’accappatoio. Sento il suo profumo.
Lei mi manda alcuni segni. Il giorno prima dell’ultima udienza mentre insaponavo i piatti sul lavandino si è formato un cuore. Io so che è lei che mi sta vicino».