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 2023  gennaio 27 Venerdì calendario

Intervista ad Ange Ange Fey, L’uomo che accompagna i malati alla morte

Si chiama Ange Fey, è nato nel 1962 a Parigi, e nel nome, Angelo in francese, c’era già il suo destino, però al contrario. Lui non è l’angelo della morte degli ebrei e dei musulmani, anche se svolge una professione senza eguali in Italia: accompagnatore alla morte. Se gli chiedi a quanti agonizzanti è stato vicino, un lampo di smarrimento gli attraversa gli occhi azzurri: «Non lo so, non lo so». Nel 2022 sono stati uno al mese, meno del solito, e il 2023 è già fitto di conferenze che lo impegneranno parecchio (Savona, L’Aquila, Alessandria, Cesena, Treviso, Sperlonga), tutte sul tema «Comprendere la morte, accompagnare la vita». Ma c’erano anni in cui ne assisteva il doppio, per cui si suppone che dal 1987 abbia raccolto l’ultimo respiro di almeno mezzo migliaio di persone.
Fey abita ad Andrate (Torino). Nel 1997 ha fondato ad Aosta una onlus, Il bruco e la farfalla, per stare accanto alle persone in fin di vita. «Preparo medici, psicologi, ostetriche, infermieri, ma anche la signora Maria». Quando vigeva l’obbligo d’indicare la professione sulla carta d’identità, era in imbarazzo: «Accompagnatore ricordava una escort. Ho preferito formatore. Uno psichiatra argentino mi ha definito carontologo. Come il mitologico Caronte, traghetto all’altra riva».
Perché scelse questo mestiere?
«Il primo libro che lessi per intero, a 17 anni, era Mourir n’est pas mourir di Isola Pisani. Avrei dovuto capire allora che c’era una qualche malattia dentro di me. Sentivo parlare del bruco sgraziato che si trasforma in farfalla meravigliosa, ma nessuno mi spiegava come finisce la farfalla. È meno romantico, no? Così cominciai a studiare le capacità di cambiamento dell’essere umano, la psicologia applicata, le tecniche alfageniche di rilassamento, la sofrologia».
Come divenne accompagnatore?
«Mi chiamavano in ospedale per i parenti in fin di vita. Un infermiere di malattie infettive mi disse: “Un ragazzo sta morendo. È solo. Ha chiesto di avere accanto qualcuno. Te la senti? Ha 28 anni”. Io ne avevo 25, ero sconvolto. Allora non si parlava di Aids. Mi trovai in mezzo a un’ecatombe. Una paziente che avrà avuto l’età di Asterix mi guardò sorridendo: “Ho un morbo che non va di moda”. Per gli oncologici c’erano varie associazioni, per lei nessuna. Come mai ci si prende cura di chi nasce ma non di chi muore? Eppure la morte non è una malattia».
In pratica che cosa fa?
«Non c’è tecnica. Porto me stesso. Mi hanno definito “esserelista”, perché il mio lavoro è “essere lì”. Gli infermieri in ospedale corrono, corrono. Al mattino mi chiedono: “Ma lei che fa?”. La sera mi dicono: “Ah, lei dà la mano”. È come mettere l’indice sulla culla di un neonato: lo afferra subito. Una persona in coma ti prende la mano e la tiene stretta».
Chi la chiama al capezzale?
«Le famiglie. Spesso gli stessi malati terminali. Vado più nelle case, che negli ospedali. Non so mai che cosa succederà. Il primo incontro dura tre ore: devo capire se servo. In media rimango 15 giorni. Ma a una donna affetta da mieloma, alla quale avevano dato 6 mesi di vita, sono stato accanto per quasi 7 anni».
Applica un protocollo?
«Non c’è regola. Me ne occupo e basta, non so come. Arrivo in una casa e ignoro se potrò essere utile. Non sono un infermiere, non sono un medico. Semplicemente sono “pronto a”. Riattivo le risorse intorno alle persone agonizzanti. I parenti non sanno neppure che esiste la legge sulle Dat, dichiarazioni anticipate di trattamento. Chiedo: se sopraggiunge una crisi respiratoria, che facciamo? Rianimiamo o no? Alimentiamo o no? Immagini sua madre che sta morendo. Non parla e non ha lasciato nulla di scritto. Lei vuole nutrirla, i suoi fratelli no. A quel punto si sfalda la famiglia».
Come fa ad avere risposte per tutto?
«Non le ho. Le cerco. Alle elementari ero sempre soprappensiero. La maestra mi diceva: “Ange, se vuoi viaggiare nel tempo, devi viaggiare nello spazio”. È ciò che ho fatto, andando a vedere negli altri Paesi com’è il testamento biologico, che non va confuso con le Dat. Esempio: se hai una polizza sulla vita, l’assicurazione paga in caso di rifiuto delle cure?».
È stipendiato per il suo lavoro?
«I corsi sono a pagamento. Ai privati applico la tariffa delle ostetriche. Faccio il loro stesso lavoro, però alla rovescia. Solo che il mio non so quando finirà».
Non teme che qualcuno la scambi per un accaparratore di eredità?
«Ci sto molto attento. Ho un pessimo rapporto con il denaro. Non sono mai stato nominato in un testamento. Quando a un funerale hanno voluto organizzare una raccolta di fondi per la onlus, ho devoluto il ricavato ai monaci tibetani».
Che cosa cercano i volontari per i quali tiene corsi formativi?
«L’Italia è fondata sul pezzo di carta. Troppi cercavano solo un titolo. Per questo ho rinunciato alla convenzione con l’ospedale di Aosta e a portarli con me. Accompagnare la vita fino alla morte è un modo di essere. Serve un talento. Morire non è una sfortuna, altrimenti, per evitarla, basterebbe che smettessimo di fare figli. Perché funzioni così, non lo so, non ne ho la minima idea. Credevo di averla a 20 anni. Oggi non ce l’ho più».
Non è nemmeno una fortuna.
«Della morte tutti pensano: il più tardi possibile. Sbagliato. Il più in salute possibile. Quando entro nelle residenze per anziani, mi sento male. Il fatto che tutto finisca mi spinge a chiedermi: come impiego il mio tempo? Sovente il moribondo sospira: “Se avessi saputo...”. Allora mi dico: Ange, tu adesso lo sai».
C’è differenza fra lei e Marco Cappato?
«Non lo conosco».
Porta in Svizzera coloro che ricorrono al suicidio assistito, vietato in Italia.
«Non è quello che faccio. Credo che si debba legiferare su eutanasia e suicidio assistito. Ma è meglio promuovere la cultura del Maalox o quella della buona alimentazione? Non si parla mai di accanimento terapeutico. Mi diagnosticano la Sla, so che non potrò uscirne vivo. Ha senso che assuma gli anticoagulanti?».
Sta molte ore con i malati terminali?
«Dipende. Se occorre, anche 10 ore al giorno. Mi confidano ciò che non hanno mai detto a nessuno. Devo anticipare il lutto, dichiarare la terminalità. I parenti ne hanno paura. Io sono lo Svitol: sciolgo. Il mio lavoro è cambiare l’aria».

Si spieghi meglio.
«Una signora di Milano mi convocò in ospedale a Bologna. Voleva morire nella sua casa di Saint-Vincent. Chiesi: ha qualcuno? “Solo mio fratello, ma non ci parliamo da anni”. Posso telefonargli io? “Provi”. Accorse subito. Era preoccupato: “Ma chi farà da mangiare?”. Poi si recò in Valle d’Aosta a preparare l’alloggio. Le chiavi le aveva una vicina, che si offrì di cucinarci i pasti sino alla fine».
Le hanno mai impedito di stare accanto a un paziente?
«No. Sono invitato. Ho la scritta “morte” sulla fronte, non so se la vede».
Di che parla con gli agonizzanti?
«Sono presente in silenzio. Ho soltanto molto chiaro che nulla dura, nulla! E che tutti, loro, io, lei, moriremo. Serve preparazione. Ho pure studiato tanatoprassi con il grande Jean Monceau all’Instituto español funerario di Barcellona».
Perché? Prepara anche le salme?
«No, è che dovevo capire. Si spegne il papà. I figli non hanno l’obbligo di lasciarlo nelle mani dei necrofori. Lavarlo e vestirlo sono atti importanti. Abbiamo smarrito ciò che c’è prima, durante e dopo la morte, l’abbiamo disumanizzata. Siamo immersi in una cultura per cui a chi sta male diamo un calcio e non ce ne occupiamo più. Accade persino con il gatto: una puntura dal veterinario e via. Ma è davvero necessaria? Oppure gliela pratichiamo perché fa comodo a noi?».
Qualche volta va a trovare in cimitero i defunti che ha accompagnato?
«Oh sì, certo. Spesso. Mi serve».
Che cosa ha imparato da loro?
«Che si muore. Che non è uno scherzo. Che non è angoscioso. Che l’ansia del distacco si supera in 15 minuti. Che ci è stato dato un tempo, di cui non vogliamo mai considerare la fine. L’ho imparato da una signora di 90 anni. “La vita è breve, la vita è breve”, continuava a ripetermi. Era una lettrice di Famiglia Cristiana. L’ho resa felice imitando l’accento tedesco nel leggergli un’intervista con l’allora cardinale Joseph Ratzinger».
Chi sta per morire è rassegnato?
«I processi sono cinque: ignoro, mi arrabbio, patteggio, mi deprimo, accetto. È che oggi ci fanno morire drogati, imbottiti di psicofarmaci».
Qual è la richiesta più frequente?
«“Non lasciarmi solo”».
«Aiutami a morire» no?
«Sì, ma attenzione: non significa “fammi fuori”. Mi terrorizza chi ti fa firmare il testamento biologico sulle bancarelle per strada. Ma siamo diventati matti?».
Lei è credente?
«Sono battezzato. Ho una vita spirituale, ma riguarda solo me. Non ne parlo mai. Imito don Sergio Messina, che era cappellano all’ospedale Amedeo di Savoia a Torino. Entrando a un incontro in curia vescovile, disse: “Il vostro Dio l’ho lasciato fuori dalla porta”. Molti malati si scusavano: “Padre, sono credente ma poco praticante”. Lui rispondeva: “Non preoccuparti. Ho tanti confratelli che sono molto praticanti e poco credenti”».
Il suo è un mestiere che consuma.
«Non sono obbligato a farlo».
In che modo riesce a ricaricarsi?
«Suonavo la batteria in un complesso jazz. Ora studio l’organetto diatonico e mi dedico al volo libero in parapendio».
Come immagina la sua fine?
«Spero di avere accanto qualcuno che rispetti i miei desideri e che non si accanisca con terapie superflue».
Ma lei ha capito il senso della vita?
«Sì. Ha dato un senso a me».