Corriere della Sera, 27 gennaio 2023
Beppe Morotta si racconta
Il Bosco Verticale che riflette le vetrate dell’ufficio è l’iconica immagine dell’ultima e più prestigiosa tappa lombarda della vita professionale di Beppe Marotta. «Mi sento come Salvatore, il bambino di Nuovo Cinema Paradiso: inizia come aiuto proiezionista al cinema del paese e diventa un grande regista. Ho coronato il sogno di una vita cominciando da bimbo a Varese, facendo il garzone del magazziniere».
Il suo primo ricordo?
«A 4 anni all’asilo ad Avigno, con il grembiulino azzurro e il cestino della merenda».
Che lavoro svolgevano i suoi genitori?
«Mia mamma Maria era casalinga. Mio papà Giovanni invece era uomo dello Stato. Prima si è arruolato nella Marina e ha combattuto la Seconda guerra mondiale. Poi è passato al Ministero delle Finanze, precisamente all’Intendenza della Finanze – l’equivalente dell’odierna agenzia delle entrate —, destinazione Varese. Era originario di Messina».
Come è stata la sua infanzia?
«Il calcio ha da subito rappresentato il filo conduttore della mia esistenza. La mia fortuna è stata abitare a 500 metri dallo stadio Ossola e dalle finestre di casa vedevo i campi di allenamento della squadra che ai tempi era in serie A. Mi affacciavo e mi dicevo: “Un giorno su quel campo voglio entrarci anch’io”».
E qual è stata la mossa per avere accesso a quel mondo così agognato?
«Avrò avuto otto anni. Mi sono presentato davanti alla porta dello spogliatoio e ho chiesto ad Angelino, il magazziniere, di poter assistere agli allenamenti. Lui, dopo aver un po’ tergiversato, ha acconsentito a una condizione. Il patto era che io lo aiutassi a pulire gli scarpini, sgonfiare i palloni, mettere le maglie a lavare. In cambio potevo indossare la tuta del Varese e osservare le sedute. Poi ho fatto carriera...».
In che senso?
«A 11 anni, il 4 febbraio del 1968, sono stato il raccattapalle di Varese-Juventus, 5-0. Un risultato storico, tripletta di Pietro Anastasi».
Nel frattempo però studia.
«Dopo le scuole medie, avendo una netta predilezione per le materie umanistiche mi sono iscritto al liceo classico Cairoli, dove tra l’altro si sono succeduti allievi come Bobo Maroni, Mario Monti, Attilio Fontana».
E come faceva a dividersi fra le versioni di greco e i pomeriggi a passare il lucido sulle scarpe?
«Le compagne mi aiutavano con i compiti. Mi ricordo ancora la severità delle professoresse con i camici neri».
Maroni era uno studente impegnato?
«Aveva già all’epoca la stoffa del politico, era nel movimento studentesco. Lui, che aveva due anni più di me, veniva a scuola con i quotidiani politici. Io con la Gazzetta. Però eravamo nella stessa squadra di calcio del liceo, con Attila».
Chi?
«Fontana, era il suo soprannome. C’era anche Beppe Bonomi, il presidente della Sea. Giocavo da centrocampista, poi a 16 anni ho iniziato la carriera da dirigente».
Precoce.
«A 19 ero il responsabile del settore giovanile. Così, strada facendo, abbandonai l’altra inclinazione».
Ovvero?
«Su Il Giornale, quotidiano locale dell’epoca, scrivevo il commento della A. Pezzi alla Sconcerti. A venticinque anni ero già presidente del club».
Il suo primo acquisto?
«Michelangelo Rampulla dalla Pattese».
Nel 1987 passa al Monza, l’attuale creatura di Berlusconi e Galliani.
«Mi alterno con Adriano che lascia la squadra l’anno precedente. È un’esperienza importante perché con Piero Frosio in panchina vinciamo il campionato di C».
A Venezia percorse il Canal Grande sul Bucintoro?
«Per festeggiare la promozione in A, un grande onore. Sa dove abitavo? A Palazzo Albrizzi, dove per un certo periodo aveva preso dimora il Foscolo, amante della contessa».
Mai Recoba fu più efficace come in quell’anno?
«È stata una delle poche volte in cui le qualità del singolo hanno smentito l’assioma di Michael Jordan secondo cui con il talento si vincono le gare, ma con il lavoro di squadra si conquistano i campionati».
Il giocatore che l’ha fatta più divertire?
«Cassano alla Samp: ho accettato la sfida di Garrone di gestire la squadra pur in B. In otto anni l’abbiamo portata ai preliminari di Champions. Ma non dimentico Del Piero, Buffon e Ronaldo».
Il più indisciplinato?
«Vidal, l’uomo dalla doppia vita».
La chiamata della Juventus è stata l’apice della carriera?
«Per un dirigente che arriva dalla provincia, le grandi squadre, come la Juventus prima e l’Inter ora, rappresentano la realizzazione del sogno di bambino».
È un caso che il cosiddetto sistema Paratici, fondato sulle plusvalenze, sia esploso dopo la sua partenza?
«I miei anni in bianconero fanno parte del passato e non posso che avere ricordi positivi. Non entro nel merito del lavoro altrui, penso al mio presente nerazzurro».
A Torino è in atto un processo di ricostruzione dopo il terremoto delle inchieste. Tornerebbe alla Juve se glielo proponessero?
«Sono contento del percorso fatto. All’Inter mi trovo bene e sono concentrato per contribuire a nuovi successi».
A quale trofeo è maggiormente legato?
«Il campionato di B vinto con la Sampdoria, il primo scudetto con la Juventus e il recente con l’Inter».
Non le hanno mai chiesto di entrare in politica?
«Certo. E siccome nella vita bisogna sempre avere un sogno nel cassetto il mio è quello di accedervi da tecnico, senza tessera di partito, per offrire il mio apporto in termini di competenza ed esperienza».
Non è che politicamente parlando la sta corteggiando il suo amico Giorgetti?
«No, guardi qui. Mi ha mandato un messaggio per prendermi in giro e dire che ci avevano soffiato loro Carlos Alcaraz del Racing. Giancarlo è tifoso del Southampton».
Lei per chi vota?
«Sono un moderato di centro, non a caso mi chiamavano il Kissinger del calcio».
Ha avuto paura quando è stato ricoverato nel 2021 per il Covid?
«Sì perché non si conosceva l’evoluzione della malattia. Per qualche giorno ho indossato il casco, sono stati momenti difficili».