La Stampa, 26 gennaio 2023
La verità, vi dico, sul Gruppo ’63
Estratto da L’avanguardia in bermuda di Angelo Guglielmi, Nino Aragno Editore
Eravamo degli sprovveduti? Per niente. Avevamo ragione? Assolutamente sì. Abbiamo avuto fortuna? Mah. Il successo di pubblico non pensavamo di pretenderlo.I critici letterari? Per un anno li abbiamo sfidati e perfino sostituiti. Avevamo preso il loro posto. Io stesso avevo preso il posto del “papa” Emilio Cecchi sul Corriere della Sera. Non si può insomma dire che la nostra piccola rivoluzione sia stata piccola. Violenta però mai. La violenza riguarda le avanguardie e noi eravamo un’altra cosa. Noi eravamo sperimentali. Il movimento che in letteratura ha preso il nome di “Gruppo ’63”, questo incendio che per una manciata di anni ha seminato il panico nel mondo della letteratura, terrorizzato i lettori, allarmato Leonardo Sciascia, incuriosito Alberto Moravia e divertito Italo Calvino, non nasce nel 1963.
Cinque straordinarie giornate vengono solitamente indicate come atto di nascita del gruppo: cinque, come le cinque giornate di Milano, solo che le nostre si sono tenute a Palermo e sono state di gioia e di lavoro. Al posto delle divise militari indossavamo i nostri comuni vestiti in (doppiopetto).
Cinque giorni dunque: dal 3 all’8 ottobre del 1963. Oggi lo posso dire e ricordare. Abbiamo mangiato, ballato, recitato, polemizzato, bevuto passito, preso il sole e naturalmente ci siamo presi gioco dei grandi scrittori del tempo. Vi sembra poco? A me no. A fine mese dovevo pure sposarmi, ma questo è (in parte) un altro discorso.
Adesso quindi la verità. Non è iniziato tutto nel 1963. E neppure nel 1961, anche se qualcosa, a dirla tutta, nel 1961 è iniziata. Un’antologia di poesie viene pubblicata quell’anno e finirà per anticipare la nascita del Gruppo ’63. Il titolo era I novissimi – Poesie per gli anni ’60 a cura di Alfredo Giuliani, un testo in cui, per la prima volta, si riunivano le poesie di cinque moschettieri, cinque poeti “sperimentali”. Erano Elio Pagliarani, Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Antonio Porta oltre allo stesso Alfredo Giuliani. È quella raccolta il primo manifesto del Gruppo ’63 che non avrà mai un vero manifesto.
L’antologia di Giuliani farà subito grande scandalo (anche se, in verità, qualcuno più serio e competente come Geno Pampaloni, aveva riconosciuto e rispettato la novità).
Non c’erano solo scrittori, ma anche musicisti, architetti, registi di teatro e cinema, direttori editoriali, critici d’arte. Era una “comune” di vecchi e giovani, esordienti e affermati, esuberanti e taciturni. Qualche nome e alla rinfusa: Alberto Arbasino, Achille Bonito Oliva, Nanni Balestrini, Renato Barilli, Gianni Celati, Furio Colombo, Gillo Dorfles, Umberto Eco, Enrico Filippini, Alfredo Giuliani, Luigi Malerba, Elio Pagliarani, Giorgio Manganelli, Edoardo Sanguineti, Michele Perriera, Antonio Porta e io (e poi tanti altri per somiglianza. Tra questi i più lucidi erano Sebastiano Vassalli e Cesare Vivaldi).
La facilità del numero, il 63, ci ha permesso di essere ricordati, fissati nei manuali di scuola, ma in realtà non ci racconta. Ho sempre pensato che il Gruppo ’63, quell’avventura, sia nuova e vecchia di almeno tre secoli. Fu proprio nel secolo ’600 che nacque il Barocco (che smantella e porta alla fine la tradizione del classico).
Qual è la caratteristica, l’identità del Barocco? È quella di sperimentare nuove modalità espressive (non più rotonde come erano le precedenti ma fortemente contrastate alla ricerca di significati nuovi).
Cominciamo dallo spazio, dalla città. C’è un luogo preciso, una città che è possibile definire la “città 63”. È Bologna. Il nostro assalto al cielo della letteratura o almeno, di un certo modo di fare letteratura, di concepire il romanzo, comincia in quella città, la città che è stata di Pier Paolo Pasolini, di Leo Longanesi e dello schiaffo ad Arturo Toscanini. La chiamano Bologna la dotta. Per me è la Bologna di Luciano Anceschi, la mia Bologna, la città della mia formazione, dell’educazione sentimentale. Ci sono arrivato nel 1945.
Prima di allora vivevo a Roma. Sono figlio di ferroviere e viaggiare è stata per me una “condizione umana”. Era stato chiesto a mio padre di trasferirsi a Bologna per riattivare (e ripristinare) la linea ferroviaria Bologna-Piacenza, una linea indispensabile per i collegamenti verso il nord (non solo d’Italia). L’Italia era stata, con la guerra, divisa in due. La linea era saltata in seguito ai bombardamenti. Ed è qui, a Bologna, che avviene il mio incontro con un mondo dominato da pittori, poeti, artisti, per così dire, “irregolari”. Non sono mai stato uno scolaro eccezionale. Da studente mi ero distinto in matematica. Al ginnasio i miei risultati erano nella norma. Le mie prove d’italiano mediocri. Mi sono iscritto al Liceo Minghetti di Bologna e malgrado non brillassi in italiano ero riuscito a farmi “nominare” direttore del giornalino del liceo. Il mio primo editoriale era un ragionamento contro l’Estetica di Benedetto Croce e la differenza poesia non poesia che non mi convinceva. Ne avevo sentito parlare da mio fratello maggiore.
Il Gruppo ’63 probabilmente non sarebbe mai nato senza Anceschi, o forse sarebbe nato lo stesso, di sicuro non sarebbe stato lo stesso senza Anceschi. Si ripete, a volte, che una rivoluzione abbia bisogno di un impresario. Ebbene, Anceschi è stato il nostro. Per me resta “il maestro”. La sua rivista “Il Verri” era la palestra (dove si compiono esercizi per tenersi in forma) e lui il primo a definire il Barocco una “categoria eterna”, il primo a tentarne un recupero. Noi abbiamo provato, con il Gruppo ’63, a raccontare, portare la luce, ciò che generalmente appariva incomprensibile. Volevamo trascinare alla sbarra tutto quello che era stato scritto in quegli ultimi anni del secolo precedente. Denunciavamo la fine del romanzo a trama, il linguaggio ottocentesco, lo stile naturalista. In una parola: lo rifiutavamo. Disprezzavamo quella lingua antica che non era più sufficiente a raccontare la realtà, il nostro tempo.
A guerra finita, e con l’esplosione del boom, tutto era cambiato. Inizia a sparire la miseria assoluta. Il Sud si trasferisce al Nord. Gli uomini della Sicilia e della Calabria e delle Puglie, già contadini ora disoccupati, emigrano con le loro famiglie verso i centri industriali di Milano e Torino che erano in cerca di manodopera per sostenere quella loro gagliarda ripresa postguerresca. Si accende la televisione, nasce un (se pur orrendo) linguaggio comune che unisce friulani e siciliani. E la letteratura? Condannata alla sua vecchiaia? Noi non eravamo consenzienti. —