la Repubblica, 26 gennaio 2023
I primi sei giorni di Matteo Messina Denaro in carcere. È solo e ha paura di morire
«Disposto al dialogo» è la terminologia che userebbe il funzionario giuridico pedagogico dopo aver trascorso alcune ore con Matteo Messina Denaro. In dieci giorni di detenzione il boss ha incontrato solo i medici che si stanno prendendo cura di lui in carcere. E con loro parla della sua malattia, di cui è molto preoccupato. Della terapia a cui viene sottoposto. Conosce le caratteristiche di tutti i farmaci che gli vengono somministrati, gli effetti collaterali che possono avere su di lui.
I suoi modi sono felpati, il tono di voce moderato e garbato, anche quando parla di cure farmaceutiche «che ci sono solo in Israele» e potrebbero fare al suo caso. Ne avrà saputo dell’esistenza attraverso internet, la rete. Non si sa. Ma quello che appare evidente è la sua paura di morire. In questa prima settimana di detenzione, la prima della sua vita, oltre ai medici e agli agenti, non ha visto nessun altro. Non è andato a trovarlo il suo difensore, che poi è la nipote, ma si è limitata a fare una telefonata. E non sono andati a vedere come sta nemmeno gli altri familiari che teoricamente non lo incontrano da trent’anni. Il boss in carcere è solo.
In compenso gli hanno scritto un telegramma che in questi giorni ha riletto più volte. Seduto per quasi tutte le ore della giornata, quei due fogli di carta sono le uniche brevi letture. Quei messaggi, telegrafici, li tiene stretti fra le mani, li osserva parola per parola, come se fosse in una moviola.Tutto a rallentatore. Li prende più volte i fogli dal piccolo tavolo dove sono adagiati e li guarda a lungo. Poi li ripone, e con il gesto della mano li stira, come ad accarezzarli.
E tutto con movimenti del corpo delicati. Appare come una persona preparata a trascorrere la sua vita in carcere. Rassegnata. E nonostante fosse abituato ogni giorno a fare una corsetta di cinque chilometri, come ha detto lo stesso boss agli agenti e la muscolatura delle gambe mostrano un fisico allenato, qui non vuole nemmeno andare a fare la passeggiata da solo nell’ora d’aria che gli è consentita.
«Non creo problemi» ha continuato a ripetere agli agenti penitenziari del Gom. E a loro chiede: «Ditemi cosa devo fare». Il boss ha voglia di dialogare. E mentre riceve la visita quotidiana di medici o agenti, ha voluto dire: «Non sono la persona che viene descritta» mentre con il dito della mano indica lo schermo della televisione, che per i primi sei giorni ha tenuto volontariamente spenta.
Il riferimento esplicito è al mondo della comunicazione che parla di lui e della sua storia criminale e di come viene raccontato. Non si ferma a questa affermazione difensiva, va oltre, e ha voluto pure dire che lui «non ha mai ucciso donne e bambini». Fra le sentenze definitive che lo vedono condannato all’ergastolo ci sono pure quelle che lo accusano dell’omicidio del quattordicenne Giuseppe Di Matteo, della giovane di Alcamo, Antonella Bonomo che era incinta, e poi della strage di via dei Georgofili a Firenze, dove muoiono lo studente Dario Capolicchio, e con lui un’intera famiglia: il vigile urbano Fabrizio Nencioni, la moglie Angela e le due figlie, Nadia, otto anni, e Caterina di cinquanta giorni.
Messina Denaro, però, alle persone che vede per la prima volta in carcere, ci tiene a dire che lui degli omicidi di donne e bambini non è responsabile. I fatti dimostranoil contrario. Questo metodo difensivo lo aveva messo in atto pure nel 1993, quando si doveva congedare da una delle sue amanti, e le aveva scritto una lettera: «Ciao, non so se hai capito che nell’operazione di ieri da parte dei carabinieri c’è anche un mandato di cattura nei miei confronti, quindi anche io ora sono ricercato. Non so ancora il motivo, ma qualunque [cosa] abbiano messo è soltanto una grande infamia, perché sonoinnocente della qualsiasi e sono rimasto vittima soltanto del mio nome e di qualche essere che profitta del proprio potere».
La filosofia di questo boss è tutta qui, riassunta in questa lettera trovata nel 1993 da un ispettore della squadra mobile di Trapani a casa di Sonia M., a Mazara del Vallo. Sonia e Matteo all’epoca hanno una relazione. Il capomafia probabilmente frequenta pure altre donne, ma è a lei che decide di lasciare il suo epitaffio: «È iniziato il mio calvario, e a 31 anni, e con la coscienza pulita, non è giusto né moralmente né umanamente, tutto ciò. Spero tanto che Dio mi aiuti (…) Spero tanto, veramente di cuore, che almeno tu nella vita possa essere fortunata, la meriti perché sei una brava ragazza. Non pensare più a me, non ne vale più la pena, perché so quali orrori passerò una volta entrato innocentemente in questa spirale infernale».