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 2023  gennaio 26 Giovedì calendario

Intervista a Catena Fiorello

Scrive Catena Fiorello, nel suo nuovo libro, che nella Sicilia in cui è nata c’è un modo di dire che è «a cu apparteni? Di cu si figghiu?». A chi appartieni? Di chi sei figlio? Ovvero, la genealogia come prefigurazione di un carattere, di inclinazioni che danno una forma. Lei, 56 anni, è la terzogenita dei quattro fratelli Fiorello: di Rosario, lo showman; di Beppe, l’attore; di Anna, negoziante, la più riservata.
Catena, lei a chi appartiene? Di chi è figlia?
«Di due ragazzi che non avevano nessuno alle spalle e si sono sempre guadagnati il pezzo di pane senza auto commiserarsi, che non hanno mai voluto sembrare due che arrivavano dalla disperazione. Mamma è nata a Giardini Naxos ed era invidiata per la bellezza. Aveva un’eleganza naturale: con le due cose in croce che possedeva, riusciva a essere splendida. Oggi, a 86 anni, è rimasta uguale. Suo padre era ciabattino e quando la moglie si ammalò e fu ricoverata a Messina, non aveva i soldi per fare quei 50 chilometri e, intanto che li racimolava, non fece in tempo a rivederla viva. Dopo la morte della moglie, impazzì dal dolore e mia madre, che aveva sei anni, fu cresciuta dalla nonna. A 16, ricamava camicette per i negozi di Taormina».
Suo padre, invece?
«Nasce ancora peggio. Sua madre era vedova con tre figli e lo ebbe con un uomo sposato. Nonna Catena andò sempre in giro a testa alta, era femminista senza saperlo, perciò ora ho aggiunto il suo cognome, Galeano, al mio. Papà fece le scuole serali perché lavorava da muratore già da bambino: nelle pietre della stazione di Giardini Naxos c’è il suo sudore. Con la terza media, poi, vinse il concorso nella Guardia di Finanza. Intanto, aveva conosciuto mamma. Erano di una bellezza incredibile, come Belén Rodriguez e Stefano De Martino. Non avevano niente, ma consideravano i quattro figli il loro tesoro. Lui diceva: non ho una lira, ma mi sento ricco. Né io né i miei fratelli l’abbiamo mai visto arrabbiato perché non aveva soldi».
Com’erano i quattro bambini Fiorello?
«Felici al massimo, non abbiamo mai sofferto di non poterci permettere qualcosa. Papà era l’allegria fatta persona, immagini Rosario al cubo. E faceva osservazioni sulla vita che ancora mi ricordo. Tipo: non ho paura dei cattivi, ma degli stupidi. Il vero soldato, però, era mamma. Ci diceva sempre: la scuola vi salva la vita, uno che sa le cose non si può prendere per fesso. E noi siamo sempre andati bene a scuola».
Rosario, però, racconta che fu bocciato.
«È vero, ma era bravo, imparava con facilità incredibile. Fu bocciato perché al liceo non ci andava proprio. Mio padre scoprì che entrava dall’ingresso principale e poi usciva dal retro e s’infilava al bar per giocare a flipper».
Voi fratelli quanto davate già segno di avere una vena artistica?
«Rosario ha iniziato a sei anni: ha fatto Ulisse legato al palo in una recita scolastica. Quando lo racconta, ondeggia tutto e fa morire dal ridere. Anna è stata sempre timida. Giuseppe è stato l’artista che si tiene tutto dentro e poi esplode di colpo. Io mi esibisco per la prima volta a 13 anni con una telefonata a Telemarte. C’era un concorso canoro, cantai Heidi e vinsi un cesto di prodotti alimentari. M’invitarono in tv a ritirarlo. Vado, mi siedo, non mi accorgo che già mi stanno riprendendo e mi metto le dita nel naso. Mi è rimasto, da allora, il desiderio di vedere il film della vita delle persone quando non sanno di essere guardate. Sarà che il mio compagno fa il penalista, ma mi chiedo sempre qual è la vera natura della gente, quando e come si può accendere un attimo di follia che tira fuori la parte mostruosa. Questa forse è anche la ragione che mi spinge a scrivere romanzi».
Iniziò tardi: primo libro a quasi 40 anni.
«Avrei voluto farlo prima, ma ho cominciato a leggere partendo dai grandi autori, per cui non mi sentivo all’altezza di scrivere. Il primo libro, comprato a 15 anni, fu Un giorno di felicità di Isaac Bashevis Singer. Parlava di un’infanzia nel ghetto di Varsavia fra le due guerre, di ragazzi che vivevano un po’ come me a Letojanni, in un mondo di adulti fatto di mezze parole o di risposte che erano sciabolate, di un senso religioso fortissimo. Poi, passai alla sua Famiglia Moskat, capii che il grande scrittore è quello che permette a tutti di entrare dalla stessa porta. Dopo, dei tre fratelli Singer ho letto tutto».
E che idea si è fatta del perché in una stessa famiglia nascano tre fratelli di talento?
«Credo che faccia tutto la natura: è come quando da genitori biondi nascono tre biondi. Ma più che di talento, preferisco parlare di vocazione. Metta noi: vedevamo mio padre cantare perennemente; a 18 anni se lo voleva portare via il circo perché sapeva cantare, ballare, intrattenere, fare tutto. Inscenava le serenate sotto le finestre delle fidanzate dei suoi amici disperati d’amore. Cantava E vui durmiti ancora, che poi Rosario ha inciso con Andrea Bocelli».
In principio, lei che lavori ha fatto?
«Mentre studiavo Giurisprudenza, piazzavo macchinette del caffè nelle aziende. Poi lessi su Amica che andavano di moda le agenzie matrimoniali, a me piaceva accoppiare le persone e pensai: sono la donna giusto nel momento giusto. E aprii un’agenzia matrimoniale».
E come andò?
«Avevo clienti da tutta Italia. Quindici coppie stanno ancora insieme. Dopo sono andata a lavorare con Rosario, quando lasciò Milano per Roma e gli serviva una tuttofare che rispondesse al telefono o sistemasse il frigo».
Da tuttofare arrivò a diventare autrice tv.
«Quando Rosario parlava con gli autori, magari dicevo: sarebbe bello questo o quell’altro. Il primo a riconoscermi il ruolo fu Maurizio Costanzo. Io non l’avrei mai chiesto e mio fratello non l’avrebbe mai chiesto per me. Con la mentalità che ha, piuttosto che agevolare uno di noi, si farebbe tagliare una gamba. Sa che lo scotto del cognome si paga. Pure oggi c’è chi dice che pubblico perché mi chiamo Fiorello, ma io di libri ne ho scritti undici e centinaia di migliaia di copie non le vendi per il cognome».
Quel passaggio di Rosario da Roma a Milano coincideva con l’uscita di suo fratello dai problemi di cocaina?
«Aveva cambiato città per cambiare vita. Si svegliava presto, usciva e lavorava a testa bassa. Aveva detto basta e l’aveva messo in pratica. L’ho ammirato tanto perché non doveva essere facile e perché i suoi momenti di debolezza non li ha mai fatti vedere a nessuno di noi. L’incontro con Costanzo, che lo faceva rigare diritto, fu la sua rinascita, gli ridiede rigore, orari».
Lei ha sei anni di meno, ma fu protettiva.
«Mai quanto Rosario è paterno e protettivo con tutti noi. Da quando papà è morto, nel ’90, fa tutto quello che faceva lui. Si occupa dei compleanni di mamma come delle malattie di famiglia. Quando mi sono operata di tumore al seno, il primo ad arrivare in ospedale, alle sette del mattino, è stato lui. Ha fatto ridere tutti i medici che mi stavano portando in sala operatoria».
Come ha poi trovato il coraggio di scrivere?
«Mentre lavoravo con mio fratello, ebbi l’idea di intervistare e raccontare i personaggi che si erano fatti da sé. Proposi l’idea a Cristina Lupoli Dalai, che mi disse che avrebbe deciso solo dopo averlo letto. Così, lo scrissi. Quando poi mi pubblicò questo Nati senza camicia, disse che ero nata per scrivere romanzi. Avevo sempre avuto in testa la storia di una bimba i cui genitori emigrano in Germania e nacque Picciridda. Paolo Licata ne ha fatto un film, che Oliver Stone, premiandolo a Taormina definì “stupefacente, che va dritto al cuore”. Mi emozionai. Comunque, ho continuato a lavorare con Rosario e fare la scrittrice a metà finché lui non si è sposato e ha messo su una squadra forte di autori: volevo essere certa di non fargli un danno».
Nel mezzo, ha fatto la conduttrice tv.
«Un autore mi chiese un programma da Nati senza Camicia, Raitre lo prese a patto che costasse pochissimo. Poi condussi Reazione a Catena, perché me lo chiesero. La tv l’ho fatta per bontà d’altri. Il mio obiettivo è sempre stato scrivere libri, il resto è capitato. Si vede che era destino. Ero stata una bambina che voleva stare sempre fuori casa, a parlare con le persone. Il lavoro migliore che potevo scegliere era raccontare».
«Ciatuzzu», edito da Rizzoli, è il suo nuovo romanzo.
«Siamo in Sicilia, negli anni ’60, Nuzzo ha nove anni e perde la mamma. Racconto un bimbo davanti a quel dolore e poi a un cambio di vita, che in Belgio capisce cosa significa essere figlio di un minatore. Però il dolore di Nuzzo non è superiore in dignità al travaglio delle protagoniste di Cinque donne e un arancino che portano i loro arancini in America e da cui forse faremo una serie tv. Non sono una che scrive per lanciare messaggi: io voglio solo raccontare qualcosa in cui, poi, ognuno legge quello che gli pare».
Che effetto le fa essere scrittrice?
«La parola mi sembra pomposa, sono contenta non quando mi leggono gli intellettuali, ma la signora che mi avvicina e dice: non ho mai letto un libro, ma ho letto il suo e ho deciso che d’ora in poi comincerò a leggere».
Ha un compagno da quindici anni, perché non si è mai sposata?
«Ho comprato l’abito da sposa tre volte e fatto i documenti quattro. Trovavo solo fidanzati che volevano sposarmi e, per non dar loro un dispiacere, dicevo sì. Poi mi veniva il terrore».
A 50 anni, annunciò le nozze col suo compagno Paolo Spalluto. Terrore anche con lui?
«Paolo, essendo molto intelligente, in 15 anni, non mi ha mai chiesto di sposarlo. Ha sempre detto: se vuoi, ci sono. Fui io a dirgli: ho 50 anni, che dici, ci sposiamo? E lui: decidi tu. Poi cominciamo: dove ci sposiamo? In chiesa. E io: però senza invitati, se no siamo ridicoli. Insomma, abbiamo lasciato perdere. Ora, se abbiamo finito, posso chiederle in ginocchio di domandarmi qual è il mio sogno più grande?».
Glielo chiedo, ma resti seduta.
«Il mio sogno più grande, prima di morire, è raccontare una storia per immagini: scrivere un film da sceneggiatrice».