Corriere della Sera, 25 gennaio 2023
L’ebreo fascista
Per Roland Barthes il piacere del testo consisteva nel dover «alzare la testa» durante la lettura «non per disinteresse, ma al contrario per un afflusso di idee, eccitazioni, associazioni». Accade così anche questa volta, ma forse c’è qualcosa di più. Leggendo Un ebreo in camicia nera – il libro edito da Solferino nel quale Paolo Salom racconta la storia vera della sua famiglia e di come il padre Marcello sia riuscito a salvarsi, in un modo «vergognoso», dalla persecuzione nazifascista degli ebrei – procediamo con la velocità imposta dalla sua limpida scrittura, che richiama alla mente la leggerezza di Abraham B. Yehoshua, e combattiamo con l’impulso di fermarci per riflettere, ponendo a noi stessi un’insistente domanda: «Come andrà a finire?».
È quasi un paradosso che l’emozione costringa a farci questa domanda (che è sempre il motore dell’interesse per un testo narrativo, come dimostrano tanti maestri), pur sapendo che Marcello Mordechai Salom – nato a Galatz, in Romania, dove il padre Galeazzo si era trasferito da Padova – è scampato all’atroce destino imposto agli ebrei dalla barbarie hitleriana. In caso contrario, naturalmente, suo figlio Paolo non sarebbe nemmeno esistito. Non è sempre vero, fortunatamente, che «al destino non si sfugge», come era scritto sul retro della spilla d’oro, regalata dal bisnonno alla moglie, di cui parla la russa Marija Stepanova in Memoria della Memoria, un altro romanzo che aiuta a guardare attraverso il buio del passato.
Sappiamo che il protagonista di Un ebreo in camicia nera sopravviverà, ma quasi non crediamo – nonostante che tutto sia effettivamente accaduto nella realtà – a quello che farà per sopravvivere. La sua scelta di arruolarsi nelle brigate repubblichine (mentre tutta la famiglia, nonostante la conversione al cattolicesimo decisa dopo il rientro in Veneto, è costretta a nascondersi per evitare la deportazione subendo enormi umiliazioni e sofferenze) innesta una successione di eventi che solo in seguito potranno essere elaborati. In quel momento, in quegli anni infami, la corsa disperata di Marcello da un luogo all’altro in un’Italia sconvolta dall’occupazione tedesca fu la risposta – in parte casuale, in parte prodotta da essere cresciuto, osserva Salom, «in un regime dove esisteva una sola verità» – all’ansia di esistere di un sedicenne che non vuole adattarsi a morire.
Ma la ribellione di Marcello – ricostruita in modo mirabile, quasi come se l’autore fosse stato presente – è anche una questione privata, cosa che la rende ancora più complessa. A scatenarla è un evento apparentemente minore: una lite tra i genitori, avvenuta nella primavera del 1944 quando la famiglia era nascosta già da qualche mese. Aurica, l’ebrea rumena che il «mansueto» Galeazzo aveva sposato a Galatz, schiaffeggia il marito del quale non aveva mai condiviso la decisione di obbligare tutti a convertirsi. Il ragazzo si alza in piedi sconvolto, affronta la madre, va via di corsa. «Il confine era stato superato – scrive Salom – e non si poteva fare marcia indietro». Perfino nelle tragedie collettive, come insegna Beppe Fenoglio, ci si può mettere alla ricerca di se stessi. Scoprendo magari un diverso che non si sarebbe voluto essere.
Ecco quindi la fuga a Como nel tentativo di passare il confine con la Svizzera, la cattura, l’inquadramento nei ranghi della brigate nere, il ritorno temporaneo a Padova, il viaggio verso la Linea gotica per continuare a combattere, la lunga marcia a piedi verso casa quando gli ultimi bagliori della guerra si spengono. Sono tutte tappe, queste, di un percorso nell’orrore che solo l’incoscienza della gioventù ha potuto rendere possibile. In uno scenario cupo, le cose accadono partendo da una prima, imprevedibile menzogna: «Sono un patriota, sono un fascista come lo siete voi!». Da quel momento in poi i confini tra recita e realtà divengono quasi invisibili. Almeno agli occhi degli altri, che sanno – come ricorda lo scrittore tedesco Ferdinand von Schirach, nipote del gerarca nazista Baldur – che le azioni vanno giudicate per quello che sono, al di là di quanto aveva nella testa chi le ha compiute.
Oggi, molto tempo dopo, raccontare questa storia di errore e salvezza – che il suo protagonista ha sempre preferito rimuovere, afflitto dal senso di colpa – è un modo, scrive Paolo Salom, «per fare pace con un passato altrimenti indigeribile». «Mio padre – aggiunge – avrebbe avuto ogni diritto di essere perdonato e capito, anche se sarebbe stato certo più onorevole salire in montagna con i partigiani e combattere i nazifascisti, come fecero i mei zii materni, più o meno suoi coetanei». C’è ancora più lucidità, in questa constatazione «normale», che in qualunque sentenza decisa dal tribunale della storia. E una dose straordinaria di commuovente affetto filiale.