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 2023  gennaio 25 Mercoledì calendario

La coscienza di Zeno

MARCO
STRACQUADAINI
Alcuni grandi libri fanno piangere e ridere, e sono grandi in ragione di questo. Scoppi di risa e un po’ più avanti vera commozione. Ricordo solo due titoli, con varie affinità nascoste: Don Chisciotte e Pinocchio. Nella Coscienza di Zeno pianto e riso però coincidono. O avvilimento invece che pianto.
È come se per essere un grande scrittore, nel 900, bisognasse somigliare a Kafka, tendere verso Kafka senza intenzione di farlo. A Proust, Joyce, Musil, al di là dei valori, somigliare è più difficile. Mentre Svevo scrive La coscienza di Zeno, stesura che terminerà cento anni fa, nel 1923, Kafka scrive nel ‘22 Il castello. Per farsi ascoltare Svevo ha dovuto aspettare trentacinque anni dall’esordio, non a caso kafkiano: nell’Assassinio di via Belpoggio (del 1890) lo sprovveduto e occasionale omicida s’impastoia nella rete della propria coscienza fino a commettere l’errore decisivo e ritrovarsi i poliziotti in casa.
La letteratura italiana del ‘900 è ammirevole, dalle varie corde e sfumatissima, ma non conosce la potenza; senza la quale è difficile uscire dai confini nazionali. Tanto poco la conosce che quando se la ritrova davanti, in Svevo, in Tozzi, non la riconosce. Quella forza ci aveva lasciati dal tempo di Manzoni, Leopardi e Verga e si ritroverà dopo forse solo nel Gadda maggiore, in Se questo un uomo, nel Deserto dei tartari. Così Svevo dovrà “tornare” in Italia dopo un doppio figurato viaggio. Prima “tappa” James Joyce, diventato com’è noto suo amico, seconda tappa la Francia e Valery Larbaud, Benjamin Crémieux, via Joyce che ora abita a Parigi. Il riconoscimento arriva al terzo romanzo, grazie anche a Montale avvisato da Bazlen, e noi siamo felici che sia venuto per una volta prima della fine, così imminente per lui (settembre 1928) perché intuiamo una persona infelice nel creatore dei tre infelici protagonisti. Infelici e comici spesso, non da bilanciare l’amarezza. Straziante è il secondo capitolo su La morte di mio padre, e strazio e comicità sono tratti kafkiani. Malattia perpetua e senso di colpa, l’immobilità dell’inazione e della coscienza che si avvolge su se stessa, altri tratti kafkiani.
In Una burla riuscita c’è forse una delle scene più comiche di tutta la letteratura italiana. Il burlato Mario Samigli – scrittore fallito che crede di star per assistere alla fine del suo fallimento – prende a calci il burlatore, impassibilmente, per un’intera irresistibile pagina. Ma isoliamo anche dalla Coscienza qualche esempio di comicità: «Io ero abbastanza colto essendo passato attraverso due facoltà universitarie eppoi per la mia lunga inerzia, ch’io credo molto istruttiva»; «... posso ritenermi un buon osservatore ma un buon osservatore alquanto cieco»; «... contavo gli scalini che mi conducevano a quel primo piano dicendomi che se erano dispari ciò avrebbe provato ch’essa m’amava ed erano sempre dispari essendovene quarantatré»; «M’è facile di ricordarmi dei propositi che feci allora, prima di tutto perché ne feci d’identici in epoca più recente...».
Zeno guarda se stesso prima da troppo vicino e lo sgomento gli svisa e gli distoglie lo sguardo. Comincia a guardare dall’alto, per illudersi di star osservarndo uno dei vari personaggi della storia. Al contempo spera che la sola totale sincerità su di sé basti ad assolverlo da irresponsabilità e inerzie. “Abulico” è l’aggettivo più frequente nella critica sveviana. Un altro concetto che ci aiuta a comprendere è quello di sciagura. Parola forte ma in Svevo nulla è morbido. Zeno è uno sciagurato che assiste, godendo perché contento di saper analizzarle, alle proprie sciagure. Una sciagura ti capita o non ti capita senza tua volontà, ma quando si dice “sciagurato” si intende più che “disgraziato”. Nel passaggio dal sostantivo all’aggettivo diventi la causa delle rovine che ti accadono. Zeno si scruta e si condanna: «Nessuno potrà dire ch’io m’abbandoni ad illusioni sul conto mio». Fugge: «Ogni minaccia di sventura m’atterrisce dapprima, ma subito dopo è dimenticata nella fiducia più sicura di saper evitarla». Sa bene, al contrario di ciò che dice in un’occasione: «le cose di cui nessuno sa e che non lasciarono delle tracce, non esistono», che quelle sono appunto le cose più esistenti, nella coscienza, per uno come lui. O le sole esistenti.
La narrativa di Italo Svevo si comprende meglio, come spesso si è detto, in contesto non italiano. Nell’ambito di quell’impero asburgico che ormai non esisteva più (un nome su tutti, Joseph Roth) o di lingua tedesca in generale, e pensiamo allo svizzero tedesco Walser, che entusiasmava Kafka. Quanto alla sua prosa-prosa, all’assenza di lirismo – anche del più autentico che alleggerisce le figure dei protagonisti di Roth o Walser rendono meno grata e più dolorosa la lettura, senza indulgenze la scrittura. E lo avvicinano ancora di più a Kafka.