Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  gennaio 24 Martedì calendario

Biografia di Warsan Shire

Ce l’ho fatta, mamma, a uscire viva dalla tua casa, cresciuta dalle voci nella mia testa.Sono i versi conclusivi della prima poesia di Benedici la figlia cresciuta da una voce nella testa, la racconta di Warsan Shire, pubblicata in Italia da Fandango con la traduzione raffinata e precisa di Paola Splendore.Con questi versi l’autrice si presenta. È uscita viva, sopravvissuta alle voci del passato, le voci della guerra, voci dei morti, dei reduci, delle donne violate, degli esiliati tutti. Le voci del trauma, voci solitarie che si fanno coro di un esilio dal Paese di origine, la Somalia.Warsan Shire nasce in Kenya nel 1988, la sua è già una storia di distacco. Suo padre, cresciuto in una famiglia di pastori nomadi, era diventato un giornalista politico ed era stato costretto a lasciare la Somalia dopo aver scritto della corruzione del governo, così decise di lasciare il Paese. Prima il Kenya, appunto, poi Londra dove nasce il fratello dell’autrice, Said. Nel 1991 in Somalia scoppia la guerra civile, le milizie rovesciano il regime militare di Siad Barre e iniziano a lottare brutalmente per il potere. In quattro mesi nella capitale del Paese, Mogadiscio, vengono uccise ventimila persone, un milione di persone scappano nei paesi vicini.A Londra, città di destinazione dell’esilio della sua famiglia, i suoi genitori si separano. Shire si divide tra sua madre e suo padre, tra ricoveri per senza fissa dimora e una comunità larga di donne che ascolta e osserva. Sua madre si risposa, ha altri tre figli di cui lei si prende cura come una madre per procura, Warsan Shire cresce con l’identità sempre a metà dei profughi, salvi per definizione ma privi di una reale cornice temporale, destinati a una fugacità perché destinati a non avere, in fondo, uno spazio che appartenga loro davvero. In una conversazione con la scrittrice Bernardine Evaristo, ha detto che l’urgenza, il desiderio di scrivere è iniziato così: «Penso che sia stato sedermi e ascoltare tutte le donne che sono venute a casa mia, che sembravano centinaia e centinaia, ho sentito parlare delle complicazioni e delle conseguenze della mutilazione genitale femminile, cose che le persone non direbbero mai, specialmente nella cultura da cui provengo. Quelle donne sapevano che volevo scrivere e in un certo senso è come se mi avessero sostenuto attraverso la condivisione dei loro racconti, e volevo solo onorarlo».Descrive sua madre come una «femminista naturale», casalinga che non era mai andata scuola, voleva vedere sua figlia libera. Cresciuta in una famiglia musulmana, quando le chiedevano di fare indossare un hijab a Warsan, sua madre rispondeva: «Lo farà quando vuole lei».La storia della sua famiglia, dei suoi esili, è scritta sui corpi delle donne, corpi violati o desideranti, mutilati o puniti: è dai corpi che partono le benedizioni, è al corpo che parlano, viaggiando nel tempo, dal passato della memoria del conflitto al futuro in un Paese che non sarà mai, del tutto, casa. È proprio intorno a questo che ruota la sua riflessione, la dislocazione, la perdita, il disorientamento che doveva essere scritto.Così Warsan Shire ha scritto ogni giorno, come una ginnastica, una disciplina, – «una specie di terapia», ha spiegato – dicendo che le parole erano per lei, da ragazza, essenzialmente un modo per osservare la sua famiglia, gli altri somali della comunità, fare i conti con l’esilio e con la guerra. Scrive, studia, si laurea in scrittura creativa alla London Metropolitan University nel 2010, pubblica su riviste e antologie, tra cui Poetry Review, Wasafiri, Sable LitMag. Nel 2012 vince il premio Brunel’s International African Poetry, nel 2013 diventa Young People’s Laureate for London.Nel 2015 la sua poesia Home (Casa) si fa grido di denuncia sulla situazione dei rifugiati in Europa. L’anno dopo l’incontro con Beyoncé – che la chiama a collaborare all’album Lemonade – sancisce l’esplosione della notorietà. Ma Warsan Shire, dopo l’esplosione della fama, si ritira a vita privata. Era arrivata la celebrità e la strada più facile sarebbe stata pubblicare allora una raccolta di versi. Invece risponde sparendo, tacendo sulle piattaforme che l’avevano resa celebre, che le avevano dato contemporaneamente visibilità e insicurezza. Seguito e senso di vertigine. In piena maratona, Shire pare fermarsi a un passo dal podio.Ha detto a Vogue, ricordando quei mesi: «Ho pensato agli autori che rispettavo e a come li ho scoperti. Voglio dire, ho trovato Toni Morrison in biblioteca e mi ha cambiato la vita per sempre. Non ha mai dovuto postare un selfie per ricordarmi che esisteva».Oggi, di fronte alle sue poesie, è chiaro che quel fermarsi equivalga al tempo di cui la scrittura ha bisogno, alla comprensione profonda di cui la creatività necessita per asciugare i versi, dare un senso compiuto all’insieme.Per scrivere il libro, ha spiegato al New Yorker che le ha dedicato un lungo, appassionato ritratto, ha osservato i suoi parenti, ha lavorato cercando di restituire le storie del passato e le abitudini nuove della vita del rifugiato, ha appuntato per tutta la vita i segni dei cambiamenti che produce la fuga, l’alienazione culturale che deriva dall’essere in un “qui” che è sempre un altrove.Non abbiamo mai disfatto le valigie, sognavamo nella lingua sbagliata, incapaci di rimuovere il rifugiato dal cuore, incapaci di dormire per una notte intera.Il cuore del rifugiato spesso si ricopre di uno strato esterno. L’assimilazione.Sognano nella lingua sbagliata i rifugiati di Shire. Le voci della Somalia in guerra permanente arrivate in Europa in cerca di salvezza e dall’Europa condannati a un destino di estraneità.Shire canta lo spirito mutevole dei profughi, la nostalgia sempre in agguato, la ricerca del bandolo della matassa con gli antenati che non somigliano più o sempre meno ai figli, le lingue che si contaminano, le lingue dei figli che i genitori non capiscono. I suoi versi sono il desiderio di un luogo da chiamare casa.È da un viaggio a Roma che la poesia che fa della parola Casa il titolo, perfetta perché secca, livida. Warsan Shire incontra alcuni rifugiati somali che vivevano nell’ex ambasciata abbandonata, senza elettricità, senza acqua corrente. Il giorno prima della sua visita un giovane si era lanciato dal tetto dell’edificio. Da quell’esperienza matura i versi di Home.Il più noto, ripetutamente citato è: «Nessuno mette i figli su una barca, a meno che l’acqua non sia più sicura della terra». Ma Home dice molto di più: «Non so dove andare, il posto da cui vengo sta sparendo».Il posto che l’autrice evoca non è solo un luogo fisico. È la memoria. Warsan Shire sa che, per non farla sparire, deve scriverla. Per questo non ha allontanato né le voci, né il loro trauma, per questo ha attraversato la storia dei corpi e li ha benedetti. Diventando una voce nomade, limpida e livida, diventando la poetessa che ha chiesto alla scrittura di renderla più forte della sua solitudine, e “ce l’ha fatta”.