il Fatto Quotidiano, 24 gennaio 2023
Biografia di Lucia Mascino raccontata da lei stasse
“È più bella dal vivo”.
“Davvero?”.
“Sì”.
Lo sguardo si abbassa. La fronte diventa riflessiva, quasi si materializzino parole e concetti.
Resta in silenzio.
“Scusi, è un problema?”.
“Non è la prima volta che mi capita, forse vuol dire che sono più adatta per il teatro che per lo schermo. Ora ci penserò”.
In questo Lucia Mascino è l’evoluzione morettiana de “le parole sono importanti”: con lei non solo le parole, pure i gesti, i contesti, le persone e le proiezioni hanno un valore da difendere. E per capire è disposta ad affrontare il vento in direzione ostinata e contraria, fino a risalire, scovare e capire dov’è quel celeberrimo battito di farfalla che lo ha generato.
Lei nasce come attrice da palco, sipario e applausi della sala. Poi superati i trenta viene scoperta dalla cinepresa (“un po’ mi dispiace, avrei preferito prima”) e inanella ciak con Nanni Moretti, Roberto Andò, Carlo Mazzacurati e pure con il Re di cinepanettoni e peti: Neri Parenti. Fino a quando diventa famosa con il ruolo di commissario di polizia Vittoria Fusco nella serie Sky I delitti del BarLume, un gioiellino arrivato al decimo anno di programmazione.
Dopo la stretta di mano e il danno per averla definita più bella dal vivo, inciampa. Un balzo ed è tutto a posto: “Nel caso, a cadere, sono bravissima”.
Per fortuna.
Su svenimenti e affini sono una sorta di stuntman mancata; (pausa) dai cinque ai quindici anni ho dedicato ore e ore alla ginnastica artistica e ancora oggi, quando cammino, mi è rimasto il passo da saluto alla giuria.
Super in forma.
No, sono pessima. Ho solo un allenamento di base, ma non ho la testa: sono veramente pigra, e appena avverto la fatica mi scatta il “non ho voglia”.
Da sempre.
(Sorride) A 24 anni ho sostenuto un provino per entrare nella compagnia di Corsetti; quel provino è durato circa un mese, in realtà era un laboratorio con lezioni pure di Aikitaiso (è la preparazione all’Aikido, ndr) e c’era gente che arrivava a vomitare per lo sforzo fisico. Io distrutta.
Era una giovane attrice esistenzialista?
(Pausa) Da fuori sembravo un cavallino pazzo, più irrequieta che filosofica, perché non sapevo stare nella vita, non mi proiettavo, non capivo qual era la mia direzione.
Quindi?
È stato il teatro a convogliare il mio bisogno artistico, prima lo sfogavo in ogni direzione.
Si interessava di politica?
Da questo punto di vista non sono una persona molto competente; ho una coscienza ma non una preparazione come mio padre (storico assessore ad Ancona, ndr); a volte mi svegliavo di notte e lo trovavo in salotto mentre leggeva e studiava uno dei suoi tomi dedicati alla politica.
Primo provino.
Mi chiamano per interpretare Maria Maddalena per la La Passione di Cristo, regia di Antonio Calenda. E ci arrivo incazzosa, con la gomma da masticare in bocca e le scarpe da montagna. Dopo il mio pezzo si fermano, parlottano tra di loro e mi domandano: “È disposta a rasarsi?”. “Sì”. Rapata a zero dalla sarta.
Come si sentiva?
Un cambiamento del genere per me stessa non lo avrei mai accettato, quindi ero orgogliosa di averlo assecondato per un ruolo importante.
Insomma…
Andiamo in scena e il giorno dopo trovo un messaggio in segreteria di Gigi Marzullo per un’intervista. Penso sia uno scherzo. Quindi chiamo tutti i miei amici per capire.
Era vero.
(Sospira) Ci sono andata. E non potevo credere di essere dentro a quel meccanismo televisivo: ero spiazzata. A disagio.
Come ha risolto?
Dalla paura ho sbagliato pure il “buonasera” iniziale e poi per salvarmi mi sono data dei toni, degli atteggiamenti non miei, e ho esposto la mia vita. Il giorno dopo, dallo choc, ho pianto tutto il giorno; è stata la perdita dell’innocenza.
Addirittura.
L’intervista con Marzullo mi ha illuminato su un punto: uno deve proporre un racconto di se stesso, non per forza se stesso.
Ha ancora l’ansia della tv?
Un pochino, sempre; (sorride) penso che se dovessi andare da Lilli Gruber mi sentirei finita.
Ci andrebbe?
No, la guardo ogni sera e lì vai solo se sei competente.
Non bluffa.
Non ne sono capace, sono una secchiona, ho la sindrome del dover essere.
E qui scatta la classica ansia dell’impostore.
No, mi manca; (ci pensa) piuttosto ci sono persone che mi scrivono tutti i giorni sui social e quando leggo non credo di poter essere io a suscitare questa attenzione; (ci ripensa) ma davvero i colleghi hanno tale sindrome?
La settimana scorsa, sul Fatto, lo ha rivelato pure Virginia Raffaele.
(Stupita) Lei? Ma è bravissima in tutto! Io non sono di quel livello, non rientro in quel campionato.
Che campionato è quello della Raffaele?
Dove giocano personalità come Paola Cortellesi o Corrado Guzzanti.
Corrado Guzzanti è nel BarLume.
La prima volta l’ho conosciuto nel 1999: ero una delle maschere nel teatro dove recitava. Io fan totale. E dopo lo spettacolo siamo tutti andati a cena insieme. Ero felice; (sorride) anni dopo mi chiamano per un provino in Dov’è Mario? e mi trovo sola sul palco. Non va un granché. Allora sento Guzzanti chi mi suggerisce: “Falla alla Clint Eastwood”.
E…
È stato stupendo, un colpo di genio, non so proprio da dove gli sia arrivata l’idea. Anche se alla fine non mi hanno preso.
Come riuscite a restare seri quando Guzzanti, nel BerLume, parla veneto?
È pazzesco, ha dei tempi suoi, è talmente un fuoriclasse da lanciare battute con un tono basso, in apparenza non dirompenti, che esplodono all’improvviso. Poi è coltissimo.
Lei è colta?
No, al massimo studiosa.
Scrittore preferito?
Elsa Morante e John Steinbeck (di quest’ultimo elenca tutti i romanzi, ndr); per me un colto sta sopra alla conoscenza basica.
Le piacerebbe esserlo?
Da morire.
La sua amica Piera Degli Esposti era colta?
Era un’intellettuale non essendolo; (ci pensa) non era la cultura a renderla colta ma la capacità di percepire non solo quello che la circondava. E poi aveva il coraggio o l’incoscienza infantile di farsi attraversare dalla vita. Senza paura.
Filippo Timi?
È un grande studioso settoriale, sa tutto di filosofi e poeti, magari perde colpi sulla quotidianità, sulla cultura generale.
Le è dispiaciuto arrivare al cinema a 30 anni?
Sì, temo di aver perso tempo, perché prima sono stata incasinata con le crisi esistenziali: mi ponevo troppi problemi.
Cosa sarebbe cambiato?
Tra i 25 e i 30 anni sei più elastico, sei più in grado di acquisire alcune sfumature, alcune angolazioni.
Però ora il teatro sta ispirando il cinema.
Soprattutto dopo il Covid e in gran parte grazie a Toni Servillo: è stato lui ha creare un nuovo contatto tra i due mondi.
La fama era un suo obiettivo?
(Sorride) Quando per la prima volta ho girato le mie foto a un’agenzia, ho accompagnato l’invio con la frase: “Speriamo di non diventare famosa”.
Perché?
Pensavo di non essere in grado di gestirla.
E…
Effettivamente è un boato non semplice da gestire; (ci pensa) sono felice di aver passato i primi dieci anni di carriera all’ombra, mi sono strutturata, però dall’altra parte non ho completamente imparato una lingua.
Ci sono altri però?
Sì, che in quei dieci anni ho vissuto il teatro a pieno, ho visto Servillo ancor prima che diventasse famoso sullo schermo, o altri grandi come Tommaso Ragno. E in questo il mondo del cinema è limitato: credono sempre di scoprire tutto, quando in realtà ci sono ancora attori straordinari e sconosciuti al grande pubblico.
Con Servillo ha recitato nel film di Andò Viva la libertà.
Una sola scena, con lui che mi consigliava: “Lucia, abbassa la voce altrimenti, all’ennesimo ciak, non ne hai più”. “Non ti preoccupare”.
Intimorita?
Quando sono in scena me la gioco alla pari, altrimenti la stessa scena non funziona.
Perché recita?
Per creare un pezzo di vita; il mio obiettivo non è raccontare, per me il bello è che in quell’attimo si crea un qualcosa di più vero della vita stessa.
Con chi le piacerebbe lavorare?
(Sorride) Non rispondo.
Sorrentino.
Con lui ho vissuto il provino più bello della mia vita.
Lo descriva.
Lui si piazza a venti centimetri dal tuo volto e ti fissa: deve capire se quello che fai ti passa attraverso. E con i registi non è sempre così.
Di solito?
Magari sono distratti, chiacchierano e ti dicono: “Tanto sto riprendendo, ti rivedo”.
Cederà alla chirurgia estetica?
Spero di no. Ma non lo do per assoluto. E poi per un’attrice è un danno, perdi qualcosa, mentre per le cantanti va bene.
Nel suo mondo chi è genio e sregolatezza?
Filippo Timi; la sua salvezza è che alla base resta un ragazzo buono che viene dall’Umbria, per il resto è l’uomo più complesso e sorprendente mai conosciuto; (sorride) quando abbiamo portato in scena l’Amleto, con le riprese della Rai, il secondo giorno si è rapato i capelli e il regista televisivo, disperato, gli chiedeva: “E ora come monto i filmati? Sei diverso da ieri”.
Risposta di Timi?
Filippo non dà risposte, lui è uno da furore galoppante, non pensa alle conseguenze.
E lei?
Eravamo quasi tutti in quel mood, ma lo spettacolo era talmente esplosivo che dopo la serata all’Ambra Jovinelli di Roma mi ha chiamata Neri Marcorè per un lavoro, poi Sabina Guzzanti e Roberto Andò per un film (pausa). Un altro genio e sregolatezza è Anton Milenin (regista teatrale russo, ndr): a un certo punto ho interrotto il percorso con lui perché avevo paura che mi portasse fuori di testa.
Spieghi.
Per un mese abbiamo studiato le prime battute del Gabbiano di Cechov. Solo quelle (e le recita, ndr). E solo per cogliere gli stati di coscienza con cui guardi il mondo, per cogliere lo spostamento del tuo stato di coscienza. Ero arrivata a un punto in cui la notte mi svegliavo, guardavo il cellulare, e non capivo più cosa fosse; per essere più chiara: ti portava in zone dove il concetto di quello che esiste e di quello che non esiste non è così chiaro. E diventa una filosofia di vita totalizzante, dove uno deve stare sul palco pure con 40 di febbre.
È salita sul palco con 40?
Certo (e mostra la foto). Il problema è che quella sera, con la febbre, ho generato il mio primo vero click mentale tra la Lucia di prima e quella più adulta. Con la febbre ho toccato un punto di vista inedito e quel punto di vista mi è entrato dentro e non è più uscito.
In quel momento se n’è resa conto?
Non solo io, ma tutti i presenti. In quell’attimo non ero più io, quel lato scuro non l’avevo mai concesso prima.
A cosa ha rinunciato?
(Resta in silenzio lungo) Per un anno non sono mai andata a trovare mia madre. Sempre appresso al lavoro. Poi ho detto basta, non è giusto così, e sono corsa ad abbracciarla.
Lei chi è?
Lucia.
(Per strada una signora la riconosce e da lontano le fa i complimenti per il “BarLume”. Lei impiega qualche secondo per rendersene conto, per capire che si rivolge proprio a lei e quindi ringraziare. “È che le interviste mi sfiancano, ora non sono lucidissima”).