la Repubblica, 24 gennaio 2023
Vita da corrispondente. Il libro in cui Enrico Franceschini si racconta
Ha ancora senso restare aggiornati su mondi lontani, documentarsi sui cambiamenti politici in Paesi remoti, studiare le trasformazioni sociali di realtà diverse tenendosi al passo con le metamorfosi del globo? Con una guerra alle porte, la pandemia globale e l’interdipendenza economica planetaria, oggi è più necessario che mai. Basta vagare in rete tra vlogger improvvisati e wikipedisti? Mah. Per ragionare su come l’informazione sia un bene indispensabile custodito da chi ha alte responsabilità, diventa importante leggere il racconto di una vita rocambolesca, densa di peripezie e di articoli dall’estero del prolifico e brillante corrispondente e scrittore Enrico Franceschini: Come girare il mondo gratis. Un giornalista con la valigia (Baldini + Castoldi). Già dal titolo si percepisce l’immediata simpatia dell’autore. Dalle prime righe, si entra in un racconto irresistibile, costruito con una capacità di affabulare e narrare forgiata in più di 40 anni di scrittura che hanno prodotto decine di migliaia di articoli e 25 libri di saggistica e narrativa (tra i quali una felicissima e premiata trilogia di gialli).
La storia germoglia con un ventenne squattrinato, ricco di iniziativa e con una determinazione di titanio, che parte dalla Bologna del movimento studentesco anni Settanta per approdare a New York, scolpendosi la strada verso il successo con puro impegno e talento, riuscendo a farsi assumere come corrispondente per la quasi neonata Repubblica, ruolo che lo porterà nelle sedi di Washington, Mosca, Gerusalemme e infine a Londra, intervistando i protagonisti della Storia, nei palazzi del potere, dalla Casa Bianca e il Cremlino fino a Buckingham Palace, ma anche per le strade e nei ghetti. «Nessun giornalista della tua generazione ha ricoperto tante sedi estere come te», gli dice un direttore. Tre continenti, cinque capitali, venti traslochi.
Questo non è un libro solo per giornalisti. È la testimonianza di uno scrittore che ha molto da narrare, capace di creare in un lampo visioni che escono dalla pagina come pietanze prelibate. Assaggiate questa prima impressione olfattiva della Russia di Gorbaciov e di Eltsin: «Un misto di minestra di cavoli, formaggio andato a male e cetrioli in salamoia. L’odore della Russia comunista». Qui c’è il talento che il suo primo maestro, il memorabile Gaetano Scardocchia, individuò subito nel giovanissimo Franceschini, assumendolo. Cogliamo l’importanza quasi muscolare della scrittura giornalistica nella descrizione del suo pigmalione, il quale «colpisce i tasti della sua Olivetti con l’energia di un operaio metalmeccanico: a metà giornata è talmente sudato che deve cambiarsi camicia, anzi per un po’ continua a picchiare i tasti in canottiera. Trasmette una bella immagine del giornalismo come di un lavoro in miniera: scendere nel sottosuolo, trovare la storia da raccontare, poi portarla in superficie il più rapidamente possibile. Un mestiere solido, concreto, necessario». Parole da appendere nelle aule delle scuole di giornalismo.
Franceschini cita altri maestri, tra i quali il carismatico Eugenio Scalfari, il geniale Vittorio Zucconi e l’elegante Sandro Viola, in questo documento storico di una florida era giornalistica di cui l’autore è uno degli ultimi rappresentanti (anche se occupa a pieno titolo il suo spazio nell’era digitale). È troppo umile per dirvi ciò che ilsaggio autobiografico esplicita: è Franceschini il maestro più valido che abbiamo oggi tra i corrispondenti all’estero. Le lezioni che impartisce non arrivano mai da un’altisonante cattedra, ma sono intrise nel racconto. Oltre all’assioma: «non importa scrivere complicato per scrivere con eleganza», la scuola Franceschini insegna che passione intensa, devozione totale e curiosità onnivora, condite da scrittura appassionata e diretta (più una sana autoironia), portano lontano.
Il reporter, a cui ci si affeziona subito con quel suo blazer dai gomiti consunti e i jeans e che sopravvive ad avventure non spoilerate qui, sulle prime viene descritto da un “amico” giornalista come «il più povero corrispondente italiano in nord America». È difatti costretto a infilarsi di nascosto la mortadella nelle mutande in unsupermercato di Manhattan. Il suo amico si chiama Bruce Willis, quando è ancora un barista che vuol far l’attore. Si vive di speranze, seduti sulle scale antincendio ad ammirare le mille luci della metropoli.
Franceschini di strada ne fa tanta, guadagnandosi ogni centimetro di carriera con minimo tre articoli al giorno, dall’alba al tramonto. Dopo New York, va a raccontare i corridoi di Washington, poi conquista scoop storici a Mosca, intervistando Gorbaciov durante un golpe, parlando con Eltsin appena eletto, trovandosi a Tel Aviv sotto i missili scud lanciati da Saddam Hussein, intervistando leader come Netanyahu, Barak, Sharon e Arafat. Nella Londra di Tony Blair, documenta la fine della Terza Via, le vicende reali, la Brexit. Fino ad oggi.
«È stata una dolce vita», conclude, non avendo affatto terminato il suo contributo, ma restando, anche in pensione, una delle penne più produttive e più “sul pezzo,” come si dice in gergo, sempre, a ogni ora e in ogni fuso orario. Un maestro che a fine carriera si rallegra, oltre ai tanti premi, che il menu della trattoria calabrese “Radici” di Londra gli abbia dedicato “gli spaghetti Franceschini”. Niente di borioso o di artefatto, si tratta di pasta al pomodoro: «una cosa semplice ma fatta bene, come piace a me».
E come piace a noi, suoi lettori, che alla fine del libro non solo ne ammiriamo gli insegnamenti, ma, come si fa con i buoni maestri, abbiamo imparato a volergli bene.
Con quel suo blazer dai gomiti consunti e i jeans sopravvive ad avventure assurdeCostretto a infilarsi la mortadella nelle mutande in un market di Manhattan