la Repubblica, 24 gennaio 2023
Brasile, gli schiavi del 2000. Un reportage
RIO DE JANEIRO – Nel mondo di Maria non esistevano diritti, c’erano solo doveri. Devi occuparti della signora Yonne, devi lavarla, devi pulire le camere, devi preparare da mangiare per tutti, devi rigovernare le bestie, ora devi badare anche alla figlia della signora Yonne, devi chiedere il permesso per andare in bagno. Devi lasciar perdere il telefono. Devi tacere. Per 72 anni Maria ha dormito su un piccolo divano lercio ai piedi del letto della signora Yonne, in mezzo alle feci del cane. Una lunga serie di imperativi ha scandito il bioritmo della sua vita di schiava inconsapevole. Tre generazioni di bianchi della famiglia Mattos Maias di Rio de Janeiro si sono passati la nera Maria come un oggetto privo di sentimento, un vecchio orologio la cui unica ragion d’essere è andare per tutta la giornata. Faticare senza mai ricevere un soldo. Servire, senza mai alzare la testa.
Che poi, se anche Maria in tutti questi anni avesse allungato lo sguardo fuori dalla finestra della casa padronale dove è stata portata con l’inganno a 13 anni, non avrebbe saputo cosa guardare. Tenuta in uno stato di assoluta ignoranza. Le dissero che l’avrebbero fatta studiare, mentendo, perché non ha potuto leggere un libro né un giornale. Per lei il Brasile era fermo a 150 anni fa, quando era dato per scontato che i neri deportati dall’Africa dovessero essere sfruttati dalle famiglie dei portoghesi che avevano colonizzato questa terra rubandola agli indios. Era così che andava il mondo, l’ordinarietà di un Paese enorme che solo alla fine del diciannovesimo secolo si è deciso ad approvare la legge Aurea, spezzando le catene della schiavitù coloniale importata dall’uomo bianco. Il Brasile fu l’ultimo Stato ad affrancarsi da quella pratica disumana e razzista, era il 1888.
E tuttavia, la storia di Maria, e di tante altre donne di colore cui non è stato mai detto che il lavoro si paga, che esistono le ferie e che la segregazione è un reato, racconta come in Brasile sopravviva il retaggio di una cultura retriva e insopportabile. Nascosto nelle case della classe media, occultato in domicili che, per la Costituzione brasiliana, gli ispettori del Lavoro non possono violare.
Le chiamano “forme di lavoro analoghe alla schiavitù” e, stando alla stima dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), riguardano 50 milioni di persone nel mondo. Il numero si spiega col fatto che la definizione è ampia. «Comprende gli impieghi estenuanti che causano malattie e decessi per sfinimento come accade nelle piantagioni di canna da zucchero», dice a Repubblica la procuratrice brasiliana Juliane Mombelli del ministério público do Trabalho. «Si applica anche a chi vive in condizioni di lavoro degradanti e a chi, per debiti, è privato dal datore di lavoro della libertà di movimento. Sono fenomeni ancora molto diffusi in Brasile, dovuti al fatto che dopo la legge Aurea non sono state predisposte adeguate politiche sociali».
Il governo brasiliano trent’anni faha iniziato una campagna nazionale per trovare e liberare questi Kunta Kinte contemporanei. A oggi sono 59.238 i salvati, per la stragrande maggioranza utilizzati nei campi, nei settore edilizio o nelle miniere. I sommersi, chissà quanti sono.
Rômulo Fontinelles l’hanno recuperato. Nel 2019 a 22 anni era venuto a Rio de Janeiro lasciando il villaggio di ciottoli e grilli dove era nato, nello stato del Piauì. «Ero disoccupato e ho avuto la possibilità di lavorare come ragioniere nell’edilizia civile a Santa Cruz, quartiere di Rio». Dopo un mese trascorso nel container del cantiere senza vedere un quattrino, lui e dodici operai sono stati cacciati. «Stavamo morendo di fame, siamo tornati al cantiere per chiedere aiuto e ho visto il padrone che usciva dall’altro cancello». Se oggi la racconta col sorriso, è solo perché gli operatori del Projeto Ação Integradas lo hanno raccolto da un angolo della strada e inserito in un programma di sostegno. «Mi hanno insegnato che chi lavora ha dei diritti. E chi offre lavoro ha dei doveri».
Grattando sotto la superficie di una nazione che il luogo comune vuole sempre e interamente allegra, disincantata, ballerina, in realtà si scopre come nel suo ventre si agitano i demoni della discriminazione razziale e dello sfruttamento. Più gli ispettori del Lavoro grattano, più affiora la schiavitù del ventunesimo secolo. Anche all’interno della abitazioni private. Nel 2017 il primo caso di una collaboratrice domestica, ovviamente nera, che in una famiglia bianca di Rubin (nel Minas Gerais) faceva la serva senza diritti né stipendio. Nel 2018 altri due casi, nel 2019 cinque, tre nel 2020 e trenta nel 2021. Scoperti grazie a segnalazioni anonime perché le vittime neanche sanno di esserlo. «Fin da bambine vengono sottratte alle loro famiglie con il pretesto di ricevere un’istruzione, ma vengono tagliate fuori dalla società. Come Maria, che non possedeva un telefono né usciva di casa», ricorda la procuratrice Mombelli, che dopo una lunga indagine è riuscita portar via la donna dalla casa dei Mattos Maias.
Quando sono andati a prenderla, Maria era disorientata. Non capiva e non voleva andarsene, perché quel divano sporco era l’unico luogo della sua vita. «Devo dare da mangiare alla signora Yonne, senza di me morirà». Piena sindrome di Stoccolma. Hanno calcolato che la famiglia, incriminata, le dovrebbe dare 300 mila dollari di stipendi mai pagati. Maria oggi ha 86 anni, soffre di problemi mentali. È affidata agli operatori sociali che le stanno riconsegnando, un poco alla volta, l’umanità negata. La terapia prevede piccoli esercizi quotidiani di libero arbitrio. La portano a mangiare il gelato, per esempio. E lei può scegliere i gusti.