Corriere della Sera, 24 gennaio 2023
Ferruccio De Bortoli ricorda Gianni Agnelli
Come dice Jas Gawronski, intervistato da Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera di domenica scorsa, Giovanni Agnelli – che fu il monarca repubblicano del Novecento, nella sua Torino sabauda – sentiva come suo pari, almeno in Italia, solo Enrico Cuccia. A suo modo anche il leggendario capo di Mediobanca era un sovrano repubblicano nell’Italia del Dopoguerra. Una sovranità dell’intelligenza e della cultura. Non solo del potere economico e finanziario.
E questa è forse la grande differenza con la business community odierna. Quella di allora era una classe dirigente non priva di difetti, non esente da colpe (anche gravi), ma, almeno in alcune delle sue punte, di valore indiscusso. Se non fosse stato così, non avrebbe resistito a tanti raider alla Michele Sindona, alle seduzioni dei poteri occulti, alla voracità dei partiti, con i quali comunque trattò non sempre con onore. Una classe dirigente cosmopolita e internazionalizzata in un Paese ancora in parte arretrato e provinciale. Con una governance del tutto personale e persino autoritaria. Raffaele Mattioli, il mitico amministratore delegato della Banca Commerciale, oggi non avrebbe facilmente un incarico. Non passerebbe le rigide norme della Bce. E forse sarebbe subito indagato dalla magistratura per la sua attività di mecenate al di fuori di ogni regola societaria.
Cuccia per la verità ebbe a lungo nelle mani il futuro della Fiat. Ne determinò i destini, compresi quelli della famiglia Agnelli e dello stesso Avvocato. La aiutò, la protesse e la condizionò. Un po’ troppo. Non solo quando la Fiat conobbe, alla fine degli anni Settanta, una crisi profonda, risolta grazie all’azione di Cesare Romiti, scelto dallo stesso Cuccia, con la sua data simbolo (14 ottobre 1980), giorno della marcia dei 40 mila (che poi erano molti meno). Comunque, Agnelli e Cuccia erano sì due monarchi, che votavano repubblicano (nel senso del Pri di Ugo e poi di Giorgio La Malfa), ma anche e soprattutto due grandi italiani, con un senso di responsabilità nei confronti del loro Paese. Pur tra errori e omissioni. Li unisce un’altra caratteristica. Se vogliamo negativa. Entrambi non si sono preoccupati di quello che si sarebbe detto di loro dopo. Non hanno lasciato memorie, scritti. All’Avvocato (oggi gli contesterebbero il titolo) probabilmente piaceva, ma solo per il gusto della provocazione, una battuta di Oscar Wilde: «Perché dovrei curarmi dei posteri? Che cosa hanno fatto loro per me?». Cuccia aveva altre e più raffinate letture. Non si occuparono, colpevolmente, di custodire la loro memoria per discrezione o semplicemente per distrazione. E quel vuoto che si è creato dopo la loro morte, all’inizio di un nuovo secolo e millennio, lo hanno riempito altri. Nel bene, ma soprattutto nel male.
E alla fine è andata così. Vent’anni dopo la sua scomparsa, Giovanni Agnelli è, nell’immaginario collettivo, soprattutto un’icona di eleganza e di stile. La sua figura di industriale è finita invece per stingersi, appannarsi. Quasi non avesse mai fatto l’imprenditore. Un’attenzione concentrata soprattutto sulle passioni e sulle apparizioni: la vita privata, la Ferrari, la vela, le donne, la Juventus. A proposito dell’amore calcistico è godibile e attuale un suo colloquio con Enzo Biagi, reduce dall’aver intervistato Tommaso Buscetta, il mafioso pentito. «È un tifoso juventino, mi ha detto di dirglielo». E Agnelli: «Guardi Biagi, forse questa è l’unica cosa di cui non deve pentirsi». Leggendario.
Qualche ricordo, persino quelli tra i più affettuosi e sinceri, lo fanno assomigliare a una specie di influencer del Novecento. Definizione che oggi gli farebbe orrore, a parte la curiosità di conoscerne gli interpreti, soprattutto femminili. L’antologia degli episodi, delle battute, è infinita. Rincuora però solo i meno giovani. È un integratore della nostalgia. Non trasmette né esperienze né tantomeno valori. Invece sarebbe opportuno discutere di più – in senso critico senza alcuna intenzione apologetica – sull’eredità imprenditoriale. Capiremmo meglio pregi e difetti del nostro capitalismo. Interrogarci sul perché il Paese abbia perso molte grandi imprese e quali siano state le cause e le colpe. Sull’occasione, in parte dispersa, delle privatizzazioni, alle quali il gruppo Agnelli partecipò quasi controvoglia, mettendo un briciolo di capitali nel cosiddetto «nocciolino» della Telecom, oggi onusta di debiti e ridotta davvero a un «nocciolino». O sull’Edison finita, guarda caso, ancora ai francesi. E ancora: sul rapporto tra capitalismo privato e Stato, oggi trionfante e invadente. E, infine, sull’avversione di parte di quell’imprenditoria privata – che vedeva in Agnelli il proprio faro – per il mercato aperto, desiderosa di rifugiarsi in nicchie protette, all’ombra del committente pubblico. Per fortuna oggi abbiamo molte imprese che hanno accettato, con successo, le sfide del mercato aperto in un Paese che diffida della concorrenza. Fu testimone di un’italianità orgogliosa delle proprie eccellenze ma nello stesso tempo dotata di una sufficiente dose di autoironia per ammettere difetti e limiti del carattere nazionale. L’Avvocato non si sentì mai uno straniero in patria, anche se probabilmente portò fuori dall’Italia un po’ del suo patrimonio (così facevano e purtroppo fanno ancora in molti). Forse, però, non avrebbe seguito la moda imperante di trasferire all’estero anche le sedi legali e fiscali di quasi tutto il made in Italy. Come senatore a vita gliene avrebbero chiesto il conto e un po’ se ne sarebbe vergognato. Ma dopotutto, Sergio Marchionne – che non conobbe – e il nipote John Elkann, hanno realizzato quelle aggregazioni internazionali che ai suoi occhi erano comunque inevitabili, tentate più volte e fallite.
Agnelli era fiero di aver vestito la divisa militare, fedele allo Stato anche dopo l’8 settembre. Avrebbe potuto andarsene dall’Italia, specialmente ai tempi del terrorismo e dei sequestri di persona. Ma non lo fece. Si sentiva profondamente legato al proprio Paese. La Prima repubblica era intimamente la sua, più per affetto che per interesse. E il declino cominciò nel momento in cui sottovalutò l’arrivo della Seconda, dominata da Silvio Berlusconi, capofila della rivolta dei piccoli industriali contro lo strapotere di Torino. I «berluschini» contro la monarchia industriale del gruppo Fiat, soprattutto in Confindustria, dalla quale Marchionne clamorosamente si separò. Agnelli non lo avrebbe mai fatto. Un monarca, abituato al consenso generale, non avrebbe resistito alle suppliche contrarie dei suoi seguaci, molti dei quali non più sudditi.
L’Avvocato era un aristocratico popolare. Distaccato, non senza qualche punta di cinismo, dalla vita reale ma, nello stesso tempo, immerso, inebriato da una curiosità quasi infantile, per tutto ciò che gli accadeva intorno. Assetato di incontri, retroscena, piccoli frammenti delle esistenze degli altri. Un esploratore instancabile dell’universo femminile. Il principale nemico era per lui la noia. «Amo il vento anche perché non si può comprare». Gli soffiò quasi sempre a favore. Tranne che in famiglia, concentrato di troppe sofferenze – come il suicidio del figlio Edoardo – molte solitudini e future liti ereditarie.