La Stampa, 23 gennaio 2023
Renzo Piano ricorda Gianni Agnelli
Renzo Piano sembra disegnare anche quando usa le parole. Ne sceglie una, come fosse una linea tracciata su un foglio bianco, e ne aggiunge altre solo apparentemente inaspettate, ma che invece si legano armoniosamente alla prima fino a delineare un progetto compiuto: affascinante e originale come le opere che lo hanno reso uno degli architetti più importanti al mondo. Accade così anche quando ricostruisce il suo rapporto con Giovanni Agnelli, dove una parola – luce – abbraccia l’architettura, la pittura, il mare e diventa il passepartout per ricostruire vent’anni di incontri e dialoghi tra due italiani davvero globali, accomunati anche dall’essere stati nominati senatori a vita. Una storia nata nei primi Anni Ottanta e proseguita fino alla morte dell’Avvocato il 24 gennaio 2003.
Possiamo parlare di amicizia, architetto?
«Amicizia è forse troppo, perché implica una rara familiarità, ma con l’Avvocato nacque un’affinità elettiva, quella che gli americani chiamano chemistry. Succede con le persone che hanno avuto vite parallele, ma fecondate da ingredienti simili. Quando si incontrano, scatta qualcosa che ti fa sentire in sintonia più di quanto potrebbe accadere con chi conosci dai banchi di scuola. Può capitare anche tra un grande capitano d’industria e un architetto».
E quale è stato il fertilizzante che vi ha uniti?
«Tre cose: la passione per il costruire, l’arte e la vela. Non entro nel campo dell’industria o della politica, temi sui quali altri possono parlare dell’Avvocato, ma sui tre aspetti che ho citato so di poter offrire una testimonianza sincera, in qualche modo anche segreta».
Perché è la parola luce a legarli?
«Perché la luce è un tema che ci univa e di cui parlavamo molto. Spesso lo facevamo qui, in questo giardino d’inverno del nostro studio di Parigi. Gli piaceva l’atmosfera, l’attività frenetica degli uffici, e gli piaceva la luce che vedeva entrare dal soffitto a vetri stando seduto proprio sulla sedia dove ora è lei. La luce è emozione, è il materiale più prezioso quando si deve costruire e l’Avvocato amava l’idea del mettere insieme le cose, del progetto inteso come aspirazione a proiettarsi in là. Aveva dentro di sé un lato batisseur, da costruttore, nel senso nobile della parola».
Come manifestava questa attitudine?
«Veniva qui, guardava i disegni e i prototipi degli edifici, vedevo un interesse sincero a ragionare di spazi abitati, vissuti. E veniva volentieri in cantiere, girava, chiedeva. Quando costruimmo l’Auditorium del Lingotto realizzammo delle travi di 30 metri. Belle, imponenti. “Possiamo lasciarle a vista?”, mi chiese. E si dispiacque quando gli spiegai che non era possibile per ragioni di sicurezza e di acustica. Di più: quando realizzammo la Pinacoteca capitò di trovarci a discutere di spessore delle lamiere e di tipi di bulloni. Era curioso di sapere come i pezzi della costruzione andavano a comporsi».
Il Lingotto è stato certamente un punto di unione per voi quando lei vinse il concorso per recuperarlo e trasformarlo. Che cosa rappresentava per l’Avvocato?
«Diceva spesso con orgoglio “Neppure le bombe lo hanno tirato giù”, a testimonianza di quanto quel luogo gli piacesse e volesse conservarlo. E sa qual era il suo posto preferito? La Bolla sul tetto. Mi diceva – ci davamo del lei, naturalmente – che era un luogo magico, anche grazie alla luce che raccoglieva».
Di nuovo la luce. Un elemento protagonista anche in altre opere?
«Penso a quando mi aggiudicai il progetto per la sede del New York Times. Ci vedemmo a New York, da ambasciatore dell’Italia all’estero era molto fiero che un connazionale avesse conquistato quell’incarico. E di tutto il progetto gli interessò soprattutto capire come eravamo riusciti a far sì che il rivestimento esterno in ceramica cambiasse con i colori della città. Sa, New York è una città atmosferica, fotosensibile, quando c’è il sole al tramonto diventa tutta rossa, dopo una giornata di pioggia è blu. Sente il tempo e noi studiammo l’edificio per fargli assorbire quelle luci».
Ma non fu soltanto una questione di edifici, vero?
«Subito dopo il Beaubourg progettai per Fiat “Vss, Veicolo sperimentale a sottosistemi”, da cui il gruppo ricavò poi 18 brevetti per altre auto, cui seguì “Flying carpet”, una struttura di auto con chassis, motore e sterzo, mentre le altre parti era previsto cambiassero a seconda dei Paesi di destinazione. Furono altre occasioni per discutere dell’essenza della costruzione».
Torniamo al Lingotto. Dopo l’edificio industriale arrivò la Pinacoteca sul tetto. Come nacque l’idea?
«Nacque qui, a Parigi. L’Avvocato veniva anche nello studio di Genova, dove gli piaceva l’ascensore esterno che dal livello del mare porta agli uffici. Ma soprattutto veniva qui, con donna Marella. Loro erano i curatori, io il braccio. L’Avvocato mi chiese di riuscire a catturare la luce e di portarla all’interno per permettere di vedere le opere al meglio. Fu con la Pinacoteca che entrò in gioco la nostra seconda assonanza, quella per l’arte».
In che modo?
«Gli piaceva parlare di arte con me perché io non sono un artista, ma ho progettato tanti luoghi per l’arte. Le nostre non erano discussioni accademiche da critici, ma di persone curiose della vita dei pittori. Lui era affascinato da Paul Klee, di cui conosco bene le opere perché stavo costruendo il suo museo a Berna, gli piaceva l’idea che ogni giorno della sua vita avesse dipinto qualcosa, “Nulla dies sine linea” dicevamo ricordando Plinio il Vecchio. È poi quello che faccio anche io, non passa giorno senza tirare qualche linea».
Come sceglieste le opere della collezione privata da esporre nella Pinacoteca?
«Andavo a trovare l’Avvocato a Torino, a Roma, a New York. Dopo cena guardavamo i quadri e la luce tornava protagonista. I colpi di luce di Matisse sono spettacolari, così come è importante nei dipinti di Bellotto su Dresda e del Canaletto su Venezia. E che dire poi della bellezza con cui Canova gioca con la luce?».
Veniamo al terzo elemento di assonanza, il mare. Come si lega agli altri due?
«Il mare è luce, ovviamente. E poi la più bella delle costruzioni al mondo è la barca a vela, una macchina gentile, una soft machine che richiede grande equilibrio. L’Avvocato amava andare a vela e qualche volta mi lasciava il timone dello Stealth nel mare di Calvi durante la bolina, l’andatura più affascinante, cosa che concedeva mal volentieri. Lo Stealth esprime bene il concetto del costruire, perché non è una barca trovata pronta in un salone nautico, è cura del dettaglio, sapienza nel combinare le parti. E poi sempre con il tricolore a sventolare».
Il tricolore ci riporta allo spirito da ambasciatore dell’Italia dell’Avvocato di cui ha parlato prima. È un ruolo che sente anche suo, architetto?
«L’Avvocato aveva forte dentro di sé questo senso di appartenenza, l’orgoglio italiano. Io sono andato a Londra nel 1958 e lavoro a Parigi dal ’71, per cui mi sento un europeo ante litteram. Ma subito dopo sono italiano, genovese e mediterraneo, grazie al privilegio geografico di Genova di essere al centro dell’Europa considerando proprio il Mediterraneo. Il lavoro mi porta continuamente in giro per il mondo e noto che c’è un tratto distintivo che ci viene riconosciuto in quanto appartenenti a un Paese umanista. In America dicono “Ah, italians”, ma lo dicono con due inflessioni: una ha un significato negativo, sempre la solita zuppa, ma l’altra è piena di ammirazione perché vedono in noi un modo di pensare e guardare il mondo più creativo, lo chiamano lateral thinking, ma a noi viene naturale».
Dalla luce siamo partiti e con la luce concludo. Questo tema che ricorre sempre, nelle costruzioni, nell’arte o nella vela, aveva per l’Avvocato Agnelli un valore estetico o secondo lei anche un significato metaforico?
«È evidente che se ami così tanto l’idea della luce, riveli interesse per qualcosa d’altro. Pensiamo al mare e alla sua luce, che associamo subito all’idea di infinito. Ma non voglio spingermi oltre o rischiare la retorica romantica. Preferisco ricordare lo spirito che ci ha unito, ovvero il fascino di mettere insieme le cose, combinarle per creare qualcosa. Quell’essenza del costruire che è stato bello condividere con lui». —