La Stampa, 23 gennaio 2023
Il 41 bis spiegato bene
In carcere si muore non solo per suicidio, ma anche di vecchiaia. Tra 2001 e 2020 sono centoundici gli ergastolani morti da detenuti. E il trend è in crescita perché i penitenziari italiani si stanno riempiendo sempre più di ergastolani sottoposti all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che vieta permessi e semilibertà. Quelli del 4 bis sono ergastolani speciali, soggetti a una norma emergenziale. Per loro le celle non si apriranno mai se non quando saranno chiusi in una bara. È successo per Raffaele Cutolo, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Nino Santapaola. Ma tanti sono gli emeriti sconosciuti al grande pubblico.
L’articolo 4 bis non va confuso con il 41 bis, che significa carcere duro. Entrambi sono figli dell’emergenza mafiosa e stragista del 1992, ma sono solo parzialmente sovrapponibili. Non tutti quelli che scontano il carcere duro sono ergastolani, anzi. E non tutti sono sottoposti al 4 bis: su 1.822 condannati al carcere a vita, 542 di loro sono quelli ordinari che dopo trent’anni di pena potranno rivedere la luna e le stelle; 1.280 sono quelli speciali che non avranno più quest’ebrezza.
Il 4 bis è generalmente conosciuto come «ergastolo ostativo» e scatta per mafiosi e terroristi quando non collaborano con lo Stato. Una misura draconiana che pesa come un macigno sui mafiosi, in quanto li pone di fronte a un bivio definitivo: o si “pentono” e inguaiano i complici, o moriranno dietro le sbarre.
Qualcosa sta cambiando, però. Ci sono state due sentenze della Corte costituzionale, nel 2019 e nel 2021, che hanno picconato il principio della «mancata collaborazione» come pilastro dell’ergastolo ostativo. Hanno detto i supremi giudici: non si può buttare la chiave perché un imputato rifiuta di collaborare con lo Stato, va valutato caso per caso se anche il peggior mafioso merita qualche beneficio.
Caso per caso, dunque, e secondo la valutazione del giudici di Sorveglianza. I dati dicono che in questi tre anni appena 24 ergastolani sono fuoriusciti dall’ostativo con qualche piccolo permesso-premio, e nessuno ha avuto la libertà condizionale. Poi però è arrivato il governo Meloni, e le maglie si sono di nuovo richiuse quasi completamente. Il suo primo provvedimento ha infatti stabilito che per avere un permesso-premio dev’essere il detenuto a dimostrare che se lo merita, e non basta la buona condotta in carcere, ma occorre che dimostri di avere interrotto i contatti con la vecchia cosca. Prova “diabolica” è stata definita.
Curiosamente, ma non tanto, sul nuovo «ergastolo ostativo», vanto della premier, converge una larghissima parte del Parlamento. Perché è ben difficile per la politica andare contro la pancia del Paese. E spetterà una volta di più alla magistratura sciogliere il nodo: è dell’altro ieri un ricorso alla Cassazione affinché valuti se anche le nuove norme non siano in odore di incostituzionalità e così ricominciare l’iter davanti alla Consulta: il ricorso lo ha presentato l’avvocato Giovanna Beatrice Araniti sul caso di Salvatore Pezzino, detenuto nel carcere di Tempio Pausania, che da tempo chiede di poter accedere alla liberazione condizionale. Pezzino fu già al centro del procedimento della Corte costituzionale nel 2021.
Ad avere cambiato le cose è un certo Marcello Viola, atipica figura di ’ndranghetista. La cultura giuridica italiana conosceva un’altra Viola, Franca, la ragazza che negli anni Sessanta, rapita e stuprata da un coetaneo, rifiutò il matrimonio riparatore (che all’epoca sanava tutto), ottenendo la condanna del violentatore e quindici anni dopo i fatti anche la soddisfazione dell’abrogazione di quell’obbrobrio legale. Marcello Viola è invece uno dell’altra parte: feroce mafioso coinvolto nella faida di Taurianova, ma appunto atipico. Per ricordare i fatti: nel 1991 i sicari di due ’ndrine si ammazzarono per giorni, e la faida culminò con l’uccisione dei fratelli Grimaldi, che furono uccisi davanti all’ufficio postale, a uno fu mozzata la testa, lanciata in aria, presa a fucilate come fosse il piattello. Ora, Marcello Viola, soprannominato “il chirurgo” perché in carcere si è laureato in biologia e poi in medicina, considerato il mandante del duplice omicidio dei Grimaldi, è anche colui che ha aperto la strada con un ricorso vinto al tribunale di Strasburgo chiedendo il rispetto dei principi fissati dalla Costituzione: se la pena dev’essere rieducativa, come si concilia con la morte obbligatoria in cella?
La ferocia di queste storie deve far riflettere su chi sono gli ergastolani all’ostativo, ma senza perciò oscurare i principi costituzionali. Ad esempio ci sono i brigatisti rossi che uccisero Marco Biagi e Massimo D’Antona: Marco Mezzasalma, Nadia Desdemona Lioce, Roberto Morandi. Ci sono sanguinari capi della camorra: Francesco «Sandokan» Schiavone che sconta tredici ergastoli, Francesco Bidognetti, Michele Zagaria, Giuseppe Setola, protagonista delle stragi del 2008 e condannato per 18 omicidi. Ci sono innumerevoli boss di Cosa Nostra. Non hanno mai collaborato con la giustizia e fino al 2019 non avrebbero mai potuto nemmeno sognare di uscire un giorno. Ora chissà.
Uno che ci ha sperato tanto ma non è riuscito a vedere la luce è il pastore sardo, ergastolano e scrittore, Mario Trudu. È morto di malattia in carcere nel 2019, dopo 41 interminabili anni trascorsi dietro le sbarre. Nel frattempo aveva fatto in tempo a terminare il libro La mia Iliade. Un’odissea di quarant’anni a inseguire la vita, Stampa alternativa, di cui diceva l’editore Mario Baraghini: «È una letteratura di sangue, che urla dal carcere, che resiste, pulsa e vive tra gli ultimi, i dimenticati, i reietti, i confinati».
Quella di Trudu è stata sicuramente una voce ascoltatissima nell’ambiente. Carmelo Musumeci, che è l’unico ergastolano ostativo ad avere ottenuto nonostante tutto la liberazione condizionale, si è laureato in carcere, scrive libri e collabora con la comunità di don Benzi, ha lasciato questo bellissimo ricordo di Trudu: «La pena dell’ergastolo – gli diceva – è peggio della pena di morte perché è anche più crudele: ammazza una persona tenendola viva chiusa in una cella per sempre. La pena di morte ti toglie solo la vita, la pena dell’ergastolo ti toglie anche l’anima». Anche Musumeci è un combattente: qualche anno fa, in occasione della festa del 2 Giugno, organizzò lo sciopero della fame per un giorno di 864 ergastolani, che intendevano così ricordare all’opinione pubblica la loro peculiare situazione «che in Italia esiste una “Pena di Morte Nascosta”, come Papa Francesco ha definito l’ergastolo».
Con l’arresto di Matteo Messina Denaro si dovranno aggiornare le statistiche perché ci sarà un altro illustre ergastolano ostativo. E l’euforia per questo successo dello Stato ha risvegliato l’attenzione sulla norma. L’associazione Antigone però non ha paura dell’impopolarità, pur di fissare i paletti dei diritti. «La convinzione – spiega Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione – che in Italia l’ergastolo non esiste è smentita dai numeri. I detenuti all’ergastolo sono in costante aumento, attorno ai 1800. All’inizio degli anni Novanta erano circa 400 unità». Marietti aggiunge un altro dato statistico impressionante su come sia in crescita il peso percentuale degli ergastolani sul totale dei condannati: in venti anni si è passati dal 2,8% al 5% della popolazione detenuta.
Non è più un fenomeno marginale come fu agli inizi, insomma. Al contrario. Resta da domandarsi: la riforma del governo Meloni chiuderà anche il piccolo spiraglio che si era aperto? Diceva già qualche mese fa un giurista progressista come Ignazio Juan Patrone, ex sostituto procuratore presso la Cassazione, a proposito dell’onere della prova: «Se una persona è detenuta da molti anni, ha ricevuto visite solo dei parenti stretti, ha seguito i programmi, non ha subito sequestro di cellulari, pizzini o altro materiale, se non risultano contatti con altre persone provenienti dagli stessi ambienti criminali, mi domando: cosa altro deve provare?». Diabolico.