la Repubblica, 23 gennaio 2023
Intervista a Matthew Modine
LONDRA – Sedici anni fa proprio a Londra, al teatro Old Vic, fu protagonista di un flop clamoroso: Resurrection Blues,con regista il suo paterno maestro Robert Altman. Oggi la “resurrezione” londinese di Matthew Modine s’incarna in Atticus Finch. Il 63enne attore americano, indimenticabile Joker diFull Metal Jacketdi Stanley Kubrick, è ora il protagonista diTo kill a mockingbird : il monumentale Buio oltre la siepe di Harper Lee, ma rivisitato da Aaron Sorkin. L’opera teatrale, sin dall’esordio nel 2018, è quella più di successo a Broadway, musical esclusi. E pure al Gielgud Theatre del West End della capitale britannica continua senza sosta, almeno fino al primo aprile, sempre sold out. Ma eccolo Modine, che incontriamo in un hotel di Soho: dopo aver impersonato Martin Brenner nella serie NetflixStranger Things,presto sarà anche inOppenheimer di Christopher Nolan.
Che film sarà, Modine?
«Enorme, ma anche molto attuale: si parla della bomba atomica».
Come è di attualità il razzismo de “Il buio oltre la siepe”, dove lei è straordinario protagonista nei panni di Atticus Finch, avvocato bianco che vuole salvare il nero Tom Robinson dalle ingiustizie.
«Assolutamente. È il passato che si riflette nel presente. Se Putin minaccia di usare ordigni nucleari, in Occidente il razzismo sistemico è sempre lì. Trump non ha creato razzisti, semplicemente ha dato loro coraggio, motivazioni e voce.
Come diceva mia madre: una stanza buia fa paura, ma quando accendi la luce i fantasmi scappano. Allo stesso modo, gli spettatori che vengono ogni sera al Gielgud capiscono cosa sia il razzismoancora oggi».
Si è ispirato a Gregory Peck del celebre e omonimo film?
«No, mai visto. Anche se mio padre gestiva un drive in e io mi sentivo come il bimbo diNuovo Cinema Paradiso».
Ma oggi il teatro è il “new cinema”?
Le sale sono sempre più costose e snobbate, mentre spopolano le piattaforme online.
«Sì. Il teatro ha ancora quell’esperienza umana che il cinema, sempre più tecnologico, sta perdendo. Prima si discuteva del film appena usciti dalla sala, c’era confronto. Oggi molti lo vedono in casa e basta: restano in silenzio. Il teatro è oggi la cosa più somigliante alla vita».
Almeno lei con “Stranger Things” ha esordito anche per una nuova generazione di pubblico.
«Sì, totalmente inedita. Netflix è qualcosa di incredibile. Ai tempi diFull Metal Jacket, se il film arrivava in 60 Paesi era un successo epocale. Oggi Netflix si vede in 190 nazioni. Ogni tanto penso ai giovani attori che hanno subito questa gigantesca risonanza. Non hanno il tempo di crescere, di sbagliare: deve essere orrendo per loro».
Nel lavoro di Sorkin non si censurano gli appellativi dispregiativi verso le persone di colore, a differenza di quanto chiedono alcuni attivisti antirazzisti in America. Perché?
«Perché altrimenti si rischia di disinfettare il passato e la Storia, invece di analizzarli e imparare da essi. Anche per questo la “cancel culture” non mi convince: cancellare gli errori del passato è un errore».
Dal trumpismo alla cancel culture, gli Usa sono un Paese di crescenti tensioni e divisioni. C’è il rischio di un’altra sortadi guerra civile in America?
«Purtroppo sì. Anche perché la gente continua ad armarsi. Io non ho mai avuto nemmeno un fucile, ma pure mia zia venne ammazzata dal marito a colpi di pistola. Ciononostante, adoro il mio Paese, ma gli imperi a un certo punto cadono».
La sua carriera è stata forgiata proprio dalla guerra, quella del Vietnam: non solo “Full Metal Jacket” ma anche “Streamers”, con il quale vinse a Venezia nel 1983 il premio di miglior attore.
«Già. Robert Altman mi diede la prima grande opportunità. Per me è stato comeun padre, davvero. Quando il mio vero papà morì, non ero con lui. Invece con Altman ho avuto modo di vivere questa esperienza: l’ho assistito come potei nei suoi ultimi giorni. Da lui ho imparato così tanto, nel bene e nel male, come conResurrection Blues».
E Kubrick? Quanto è stato importante per lei?
«Irripetibile. L’inizio di2001 Odissea nello spazioè l’apoteosi della rappresentazione dell’umanità e del tempo. Con Kubrick abbiamo lavorato insieme per due anni di fila aFull Metal Jacket,oggi, invece, per fare un film non si va oltre i 4-5 mesi: non hai più la possibilità di imparare così tanto».
Anche con lei Kubrick fu un mostro maniacale, come lo hanno accusato altri suoi attori?
«No, affatto. Magari perché era ancora giovane. Ma io Kubrick l’ho visto arrabbiato solo per un motivo: quando capiva che l’attore non stava dando il 100%. Ti beccava subito».