Il Messaggero, 23 gennaio 2023
È boom di dimissioni nel 2022 (+22%)
La crisi del lavoro non molla l’Italia ma sempre più persone, a quanto pare, non sono comunque disposte a tenersi un’occupazione sgradita pur di incassare uno stipendio. Esplode come in tutto il resto del mondo il fenomeno delle dimissioni. Nei primi nove mesi del 2022 oltre un milione e 600 mila persone, nel nostro Paese, hanno abbandonato l’impiego, con una crescita del 22 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Si tratta di un fenomeno ben noto negli Stati Uniti che lo hanno battezzato Great Resignation, la grande fuga da uffici, fabbriche e negozi. Si parla di effetto post Covid. Molti lavoratori di ritorno dallo smartworking, dopo aver sperimentato i benefici del lavoro agile da casa, con pochi orari e senza il fiato sul collo del capo, non sono disposti a tornare indietro alla vecchia scrivania. Ma c’è di più. I giovani in particolare, attratti dal miraggio di mettersi in proprio, rinunciano a contratti poco pagati e demansionati rispetto agli studi effettuati. Meglio aspettare la prossima occasione che vivere infelici, precari e con pochi soldi in tasca. In particolare per chi opera nel settore tecnologico e informatico.
GLI OBIETTIVI
Il fenomeno delle Grandi dimissioni, secondo i calcoli dell’agenzia specializzata Randstad, è cresciuto del 44% negli ultimi 18 mesi e nel 76% dei casi si tratta, appunto, di millennials. Fra le cause principali ci sono l’insoddisfazione, la demotivazione e la mancanza di obiettivi. E in metà delle aziende le dimissioni incidono sui livelli di performance aziendale e sul clima interno. In molti si pentono della loro scelta. «Le evidenze - spiega Caterina Gozzoli, direttrice dell’Alta Scuola di Psicologia dell’Università Cattolica - dicono che per le persone il benessere al lavoro non può più essere limitato a benefit aggiuntivi. La cultura organizzativa deve riconfigurare il benessere come una dimensione connessa alla quotidianità, al senso del lavoro, a obiettivi condivisi e condivisibili. Le persone portano il bisogno di sentirsi protagoniste nella quotidianità professionale. Questo si collega anche al progressivo venire meno del senso di appartenenza nei confronti dell’organizzazione, con un conseguente impoverimento del patrimonio aziendale». Tra gli osservatori, comunque, c’è chi vede elementi positivi nel fenomeno delle dimissioni. Da un lato può essere stata la ripresa occupazionale, dopo la caduta determinata dal picco della crisi Covid, con maggiore mobilità e opportunità anche per chi vuole cambiare lavoro, soprattutto per i profili tecnici e specializzati. Dall’altro lato, al contrario, proprio la crisi e la necessità o il desiderio di un diverso equilibrio tra vita privata e professionale possono aver spinto a scegliere di dire addio al proprio posto di lavoro.
I SINDACATI
Per Giulio Romani della Cisl bisogna «rivedere i modelli organizzativi verso una maggiore qualità», visto che le imprese in cui si sviluppa benessere lavorativo e qualità del lavoro sono una minoranza e sono quelle dai 10 ai 250 dipendenti. Ma la platea delle imprese italiane, spiega, «è però occupata per circa il 95% da microimprese, quelle con la minore produttività, all’interno delle quali mediamente si fatica di più a sviluppare forme di welfare integrativo e dove non si pratica la contrattazione aziendale e non si costruiscono sistemi premianti trasparenti. Dove si eroga poca formazione, si genera minore conciliazione vita-lavoro, si intravedono le minori prospettive di crescita economica e professionali». «L’aumento delle dimissioni - spiega Tania Scacchetti della Cgil - può avere spiegazioni molto differenti: da un lato può positivamente essere legata alla volontà, dopo la pandemia, di scommettere su un posto di lavoro più soddisfacente o più agile, dall’altro però, soprattutto per chi non ha già un altro lavoro verso il quale transitare, potrebbe essere legato a una crescita del malessere dovuta anche ad uno scarso coinvolgimento e ad una scarsa valorizzazione da parte delle imprese».