Corriere della Sera, 23 gennaio 2023
Il ritorno (dannoso) dei muri
L’Occidente ha imboccato una strada che ha ottime possibilità di finire in un vicolo cieco. Improvvisamente convinti che la globalizzazione dell’economia sia finita – mentre non lo è, sta solo cambiando sentieri —, Stati Uniti e Unione europea si stanno chiudendo a fortezza nei rispettivi confini. Con la possibilità che si scontrino tra loro e con la certezza di mettersi contro il resto del mondo: non tanto la Russia e la Cina, che per cercare conflitti non hanno bisogno di stimoli occidentali, ma con Paesi che stanno emergendo in modo potente dal ridisegno delle rotte dell’economia dopo il Covid-19 e dopo l’invasione dell’Ucraina. Perché chiudersi all’India, alla Malaysia, a Taiwan, alle Filippine, alla Thailandia, al Sudafrica, al Messico?
Da Washington a Bruxelles, da Berlino a Parigi passando per Roma, il concetto che sta mettendo radici è «Politica industriale». È il ritorno di un’idea di economia che non era mai scomparsa ma che per tre-quattro decenni – appunto quelli della globalizzazione – è andata via via sbiadendo. Fondamentalmente, i governi americano ed europei intendono riproporre un intervento massiccio degli Stati nella gestione dell’economia: attraverso pacchetti di sussidi con i quali indicano quali settori e quali business devono essere privilegiati e in generale con politiche che puntano a dare una direzione alle scelte delle imprese (e spesso dei cittadini).
In passato, prima degli Anni Ottanta del secolo scorso, questo dirigismo ha forse prodotto qualche risultato, date le grandi quantità di fondi impiegati. Però, ha causato notevoli sprechi di denaro pubblico, allocato non sempre in modo produttivo (l’Italia ne sa qualcosa), e soprattutto ha frenato l’innovazione e la dinamicità delle imprese, attratte più dai finanziamenti di Stato che dal mercato.
Quando le barriere agli scambi sono cadute, quando i capitali hanno preso a muoversi liberamente per finanziare idee e opportunità, quando la tecnologia ha permesso un boom infinito di scambi di informazioni, le politiche industriali e il dirigismo hanno iniziato a declinare. Oggi, però tornano. Il Partito comunista della Cina in realtà non ha mai smesso di guidare l’economia. In Occidente, invece, ha iniziato Donald Trump con il protezionismo, imponendo sanzioni e tariffe, e Joe Biden lo segue con due massicce iniziative: 370 miliardi di dollari di sussidi alle imprese americane per investire soprattutto nelle auto elettriche (ma non solo) e cento miliardi per bloccare l’emergere tecnologico di Pechino. A questo, la Ue sta reagendo: teme che le imprese europee siano allettate dai sussidi di Biden e lascino l’Europa. A sua volta, dunque, si prepara a creare un fondo – o un fondo sovrano, secondo la presidente della Commissione Ursula von der Leyen – per sostenere le aziende del continente e non farle emigrare. Inoltre, la commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager, una liberale, si è detta (moderatamente) favorevole ad addolcire le norme che vietano gli aiuti di Stato – un pilastro del mercato unico – a patto che questi siano europei e non nazionali. In più, la Ue punta a una tassa «climatica» all’ingresso delle merci extra-Ue per prodotti realizzati con eccesso di emissioni serra, misura accusata di essere protezionismo mascherato dal resto del mondo. Parigi e Berlino guidano da tempo la battaglia a favore di questa svolta.
Stati Uniti e Unione europea stanno cercando di non arrivare a una guerra commerciale tra loro. Fatto sta che alzano muri, rischiano di diventare fortezze transatlantiche (in accordo o divise che siano) che irritano chi rimane fuori: alleati storici, come il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia e lo stesso Regno Unito ma anche quei Paesi, soprattutto asiatici, che stanno beneficiando dello spostamento degli investimenti globali fuori dalla Cina, considerata più imprevedibile e rischiosa rispetto al passato, e che saranno un pezzo importante del futuro.
Oltre che un’interferenza pesante nel libero mercato, le nuove politiche di Usa e Ue rischiano di essere un errore economico e allo stesso tempo geopolitico. Le imprese occidentali hanno certamente bisogno di sicurezza in un mondo entrato in un’era di scontro tra potenze. Ma vogliono continuare a muoversi sulle rotte mondiali dove ci sono opportunità, sia per esportare sia per approvvigionarsi: se non può essere la Cina, saranno il Vietnam, l’India o un Paese africano. La sicurezza, per loro, sta nel tenere aperte le vie di comunicazione fisica e informativa, non nel costringerle in recinti. Sul versante politico, inoltre, alzare muri economici può costringere Paesi che non lo vorrebbero a legarsi più strettamente a Pechino. Non è diventando più cinesi che si vince la sfida con la Cina, tra l’altro oggi in crisi di modello. Può finire che, lasciando fuori possibili alleati, al freddo rimanga l’Occidente.