La Lettura, 22 gennaio 2023
Intervista a Javier Cercas - su "Colpi alla cieca" (Guanda)
«Sono d’accordo con me stesso», mi anticipa un po’ a sorpresa Javier Cercas — lui, sempre così antidogmatico — esplodendo nella sua risata da ragazzo quando gli leggo subito, per poterla riascoltare guardandolo negli occhi, una frase del suo nuovo libro Colpi alla cieca, raccolta di articoli, saggi e interventi, curata da Bruno Arpaia, che ci aiutano a decifrare (e magari anche a sopportare) un mondo ogni giorno più intricato: «Il romanziere e l’intellettuale sono personaggi opposti: il romanziere non dice mai né sì né no, perché lo strumento essenziale del romanzo è l’ironia; l’intellettuale invece, come il cittadino, prima o poi è costretto a dire sì o no». «Nessuno dei due può vincere: la tensione deve essere costante», aggiunge adesso, parlando dalla sua casa di Barcellona. Questa «battaglia spietata» tra due modi di conoscere la realtà ha incessantemente animato il lavoro di uno scrittore che nella sua produzione letteraria e nella riflessione «civile» tenta di impossessarsi delle ombre oscure prodotte dalla storia.
Attenzione, però. Voler essere un romanziere che persegue «verità ambigue» — come Cercas ha fatto magistralmente, fin da Soldati di Salamina, nel 2001, per arrivare poi, senza mai contraddirsi, ai «gialli» del ciclo di Terra Alta — e sfuggire all’insidia di cadere «nella propaganda o nella pedagogia» («la letteratura è utile se non si ripromette di essere utile») non significa certamente dimenticare la propria «responsabilità». «La responsabilità degli scrittori — osserva — è molto grande, perché le nostre parole possono arrivare a tutti e hanno un potere straordinario». Se questo è vero, si comprendono le sue critiche ad Annie Ernaux, recente vincitrice del Nobel, che ha guardato con simpatia in Francia alle manifestazioni estremiste antigovernative, oppure a Michel Houellebecq, che ha lodato la Brexit, «il risultato di una tempesta di menzogne». «Farsi affascinare dal radicalismo di sinistra o di destra — dice — crea conseguenze. E quando si parla di violenza, giustificarla mi fa infuriare».
Diviso in cinque sezioni, «Colpi alla cieca» offre un panorama molto completo della sua «proiezione esterna». Non c’è grande tema del dibattito attuale — dalla «rivoluzione delle donne» alla crisi della democrazia, dalla minaccia del nazionalismo alle difficoltà del sogno europeo — che non sia esplorato, approfondito, riletto con acutezza e con spirito critico. Senza dimenticare le riflessioni, molto personali, sul ruolo che chi scrive deve svolgere nella società. Ma, nonostante questo, c’è qualcosa che le è rimasto nella penna e che, se potesse, vorrebbe aggiungere?
«Sento ogni giorno di più di essere, per certi versi “pro-sistema”, nel senso del nostro sistema democratico. Io credo profondamente nella democrazia. La democrazia, che non è mai perfetta, oggi è in pericolo. Come romanziere, invece, sono completamente “anti-sistema”: quello che fa la finzione è mettere in discussione le nostre certezze più radicate. Deve dirci: “Sei sicuro di questa idea? Allora contrastiamola”».
Non c’è il pericolo che questa «guerra» interna tra due modi diversi di vedere il mondo, tra quelli che definisce «due personaggi opposti», possa logorare chi come lei la combatte? Ha avuto mai la voglia di restare solo romanziere o solo intellettuale-cittadino?
«In realtà ho avuto sempre una certa diffidenza nei confronti della figura dell’intellettuale. Oggi ho spesso la tentazione di lasciare perdere, di evitare i problemi e le polemiche come è accaduto durante la crisi catalana. Ma poi mi sono detto che era nel mio carattere e che non potevo smettere di dire quello che pensavo solo perché la situazione nel mio Paese si era fatta più difficile. Anzi, proprio perché ho la possibilità di farmi ascoltare, intervenire diventa un obbligo. Se non lo avessi fatto mi sarei sentito peggio. Però tante volte ho avuto la tentazione di fermarmi. E forse un giorno lo farò».
La letteratura «impegnata» non le piace: è un’illusione, una trappola, un errore. Ma gli scrittori devono provare a cambiare le cose in qualche modo?
«Gli scrittori che ho ammirato sono uomini che non hanno taciuto. Anche Jorge Luis Borges e Franz Kafka, benché si creda comunemente il contrario. Borges , che ha fatto anche alcuni errori, firmò numerosi manifesti antiperonisti. Kafka fu arrestato per aver partecipato ad una protesta contro l’esecuzione a Parigi dell’anarchico Jean-Jacques Liabeuf. La “torre d’avorio” spesso è una fantasia».
E si può lottare contro il male con i romanzi?
«Una delle grandi superstizioni del nostro tempo è credere che la letteratura non abbia niente di utile ma sia soltanto un sofisticato gioco intellettuale. È una forma di conoscenza, e il male si può combattere solo se lo si capisce. Capire non vuol dire però giustificare ma esattamente il contrario, cioè procurarsi le armi per non commettere gli stessi errori. La letteratura ci consente di comprendere anche mostri come Riccardo III o Raskolnikov. Se ha il coraggio di andare al fondo dell’inconoscibile, come scriveva Charles Baudelaire, allora diventa utile».
Parlando del male, viene subito in mente la Russia di Vladimir Putin. È la dimostrazione che, come lei ha avuto modo di sostenere, «il passato fa parte del presente»?
«È evidente. Una delle giustificazioni della guerra a cui stiamo assistendo è stata proprio la storia. Putin ha scritto molti anni fa che l’Ucraina non esisteva. Il nazionalismo va sempre alla ricerca di una giustificazione nella storia, perché sa molto bene per controllare presente e futuro bisogna controllare il passato, creando una visione del passato utile per il presente».
Le fa paura il nazionalismo?
«È un’idea tossica che deve sparire. Per me è un’ossessione. L’Unione europea è l’antidoto al nazionalismo. Ma servirebbe una rivoluzione federalista».
La sinistra è destinata al declino?
«Non dimentichiamo mai che la socialdemocrazia ha dimostrato la capacità di creare società ugualitarie, giuste e prospere. L’Europa attuale è un risultato di questo modello vincente. Ma si può morire di successo, questo è il vero pericolo. Oggi la sinistra non può accontentarsi di retorica o di buoni sentimenti. Deve essere pratica, concreta, migliorare la vita dei cittadini. In più è catastrofica la sua tendenza permanente a dividersi. La crisi è il risultato del suo successo, però deve rinnovarsi».
Ma in un mondo dove si diffonde quotidianamente tanto odio, non andrebbe forse rivalutato quello che si definisce generalmente il «buonismo»?
«La bontà va rivendicata, perché è la virtù essenziale. Non è sentimentalismo. Bisogna avere molto coraggio ed essere molto forti per esercitare la bontà. Anche il sentimento, che appartiene agli esseri umani, è il contrario del sentimentalismo. Se la verità è politicamente corretta, meglio essere politicamente corretti».
A proposito di veleni, sembra quasi che con Vox la Spagna abbia conquistato il primato di avere l’estrema destra più aggressiva e nostalgica d’Europa. Che cosa ne dice?
«Probabilmente. Certo, la competizione è molto dura... Ma ho la speranza che il successo di Vox sia effimero. Fino a poco tempo fa, con Portogallo e Irlanda, noi eravamo gli unici a non avere l’estrema destra. Ciò che ha provocato la sua apparizione, il detonante, è stato lo scontro tra i due nazionalismi. Quella spagnola è un’estrema destra “antica”, il cui discorso è arrugginito, destinata a rimanere minoritaria».
Un giudizio finale sul separatismo catalano?
«È un’espressione forte di quel nazionalpopulismo la cui perversione è attaccare la democrazia nel nome della democrazia».
Eccolo, ancora una volta, il polemista orgoglioso che non ha paura delle sue idee. Ma la tremolante schermata di Zoom ci restituisce come al solito un’immagine di Cercas sereno, amichevole e tranquillo, mai appesantito dalla sua convinzione che un bravo scrittore sia «un individuo che si dedica a dire ciò che la gente non vuole sentire». È appena tornato dalla Turchia, dove ha firmato libri per tre ore e mezzo — racconta — alla fiera di Istanbul, e dal Montenegro, che gli ha assegnato il premio Literary Flame. Sta preparando un volume di interventi per il pubblico spagnolo simile a Colpi alla cieca. Lo lasciamo quindi al suo tempo e alla sua casa, non lontana dallo studio del quartiere di Gràcia nel quale sono nati i suoi romanzi più recenti e in cui colleziona i risultati delle lunghe ricerche compiute per terminarli. È troppo attento per smentire (o confermare) la mia antica profezia secondo la quale avrebbe trasformato Cosette — la figlia di Melchor Marín, il poliziotto-eroe di Terra Alta, Indipendenza e Il castello di Barbablù — nella protagonista femminile di un secondo ciclo narrativo. «Non lo so. Non voglio imporre niente a me stesso. Sono i temi a trovare gli autori. Per quanto riguarda la fiction questo è un momento di dubbi e forse di cambiamenti. Ho dei dubbi, ma è bello averli. Aspettiamo». Anche noi lettori aspettiamo, ma con più ansia di lui.