il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2023
Storia dell’Iri
Novanta anni fa, il 23 gennaio del 1933, fu promulgato il Regio Decreto-Legge n.5 che costituiva l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (Iri). Questo nuovo ente pubblico sarebbe diventato il più importante gruppo industriale italiano del secondo dopoguerra, ma l’Ir i non fu inizialmente creato per nazionalizzare e porre sotto il controllo statale le più grandi imprese del Paese. Alberto Beneduce (il primo presidente) e i suoi collaboratori lo concepirono come strumento di intervento temporaneo per salvare le tre principali banche italiane – e p r ob a b il m e nt e anche il regime fascista – da un sicuro tracollo finanziario provocato dalla depressione economica dei primi anni 30. Tuttavia, la Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano e il Banco di Roma erano anche delle holding di partecipazioni, che finanziavano le grandi imprese industriali da esse controllate con la raccolta del risparmio dei depositanti: col salvataggio delle tre banche, l’Iri divenne – quasi involontariamente – proprietario del 21,5% del capitale azionario nazionale e lo Stato si trovò a controllare oltre il 30% del credito commerciale nazionale, l’80% del trasporto marittimo, il 90% della cantieristica, il totale della siderurgia bellica, il 40% della siderurgia civile, tre concessionarie telefoniche nazionali su cinque, due terzi dell ’industria elettrica e un quarto di quella meccanica. SEBBENE L’OBIETTIVO i ni zi al e dell ’Iri fosse quello di “restitui – re” al mercato le imprese risanate per ripagare il salvataggio pubblico, ciò non fu del tutto possibile. Gli industriali non furono disposti a investire in complessi societari come l’An – saldo, l’Ilva e l’Alfa Romeo e neanche per sviluppare il settore telefonico e riorganizzare quello del trasporto marittimo. Ottenuto il riconoscimento in sede di Assemblea Costituente, lo statuto del 1948 attribuì all’Iri un ruolo permanente nel gestire le partecipazioni dello Stato come strumento della politica economica del Paese. Questo fu possibile nel momento in cui l’Iri divenne un vero gruppo industriale integrato, non solo un insieme sparso di partecipazioni. Si creò una struttura a tre livelli: le società operative vennero raggruppate sotto “finanziarie di settore” (entrambe con la forma giuridica di società per azioni), a loro volta controllate dall’ente pubblico al vertice. Da questa riorganizzazione nacquero le varie Stet, Finsider, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Finmare e altre ancora. Al vertice della struttura stava l’Istituto, l’ente di diritto pubblico che coordinava le controllate per attivare potenziali sinergie industriali, valorizzare le interdipendenze settoriali e favorire la nascita di nuove iniziative imprenditoriali. L’Iri fu davvero “impren – ditore” perché ristrutturò attività industriali in crisi (la can tieristica, l’industria meccanica, il settore alimentare), sviluppò una moderna siderurgia nazionale e diversificò la sua matrice produttiva in campi economici che in Italia erano allo stato primordiale o semplicemente non esistenti: fu pioniere nel settore aerospaziale (Aeritalia), dei radar (Selenia), dell ’informatica (Italsiel) e dei semiconduttori (SGS-Ates). Si fece poi carico di creare la compagnia aerea di bandiera Alitalia (ai tempi tra le prime sette al mondo) e di realizzare le autostrade che collegarono il Nord e il Sud del Paese (l’Autos trada del Sole e l’A d r i at i c a ). SE NEL 1948 L’IRI era ancora per oltre tre quarti specializzato nella tradizionale industria meccanica pesante, nel 1991 aveva assunto una struttura industriale prevalentemente impegnata nei settori hig h-te ch. In alcuni fra i principali segmenti industriali dell’ele ttronica, dell’informatica, delle telecomunicazioni, dell’i n gegneristica avanzata (grande cantieristica, trasporti su rotaia, energia, aerospazio, impiantistica e automazione industriale) e del trasporto aereo, il gruppo Iri ricopriva posizioni competitive di rilievo nell’oli – gopolio internazionale. Oltre a realizzare questi risultati di sviluppo industriale in senso stretto, l’Iri si fece promotore di vere e proprie missioni pubbliche a livello nazionale. Fra queste si annoverano la formazione di tecnici, quadri e dirigenti aziendali grazie ai centri Ifap e Ancifap. Oppure l’impulso alla modernizzazio ne del Sud, con la localizzazione di moderni impianti manifatturieri in aree depresse e lo sviluppo di reti telefoniche e autostradali. Ma soprattutto, l’impegno nella ricerca e nella diffusione di conoscenze tecniche e scientifiche nel sistema nazionale di innovazione, tramite alcuni importanti centri di ricerca inter-aziendali (aperti a partecipazioni miste pubblico-private) e a una serie di consorzi con le università per il trasferimento tecnologico. IL PESO QUANTITATIVO dell ’Ir i nell ’economia italiana del dopoguerra è stato impressionante. Nel 1991 era ancora il più grande gruppo industriale italiano con circa 370.000 dipendenti (oltre 100.000 al Sud). A livello mondiale si collocava al 10° posto per fatturato (5° per numero di addetti) nella classifica Fortune del 1992. Sempre nello stesso anno, l’Ir i rappresentava l’1,7% degli occupati italiani, pesava per il 3% del valore aggiunto, il 5,4% delle esportazioni, il 5,3% degli investimenti fissi, il 23,5% della capitalizzazione di Borsa (e per il 35,8% dei dividendi), il 10% delle obbligazioni industriali e circa il 15% della ricerca e sviluppo (26% rispetto al settore delle imprese). I risultati economici dell’Iri furono fortemente negativi solo nel decennio 1975-1985, due terzi di essi derivanti dall’acuta crisi dell ’industria siderurgica mondiale. Il finanziamento statale all’Iri nel corso della sua intera storia è valutabile intorno ai 54 miliardi di euro a prezzi del 2018: il resto delle risorse finanziarie, circa il 90% nel periodo 1948-1991, vennero dall ’autofinanziamento o furono acquisite sul mercato. L’Iri fu mandato in pensione quando non aveva ancora compiuto 60 anni. Nel 1992, la trasformazione in Spa e la successiva privatizzazione delle sue principali imprese privò lo Stato di un fondamentale agente di intervento nella struttura produttiva nazionale. Con la privatizzazione dell’Iri (e di altre imprese come Enel ed Eni), lo Stato imprenditore si è trasformato in un più modesto Stato azionista. Oggi le ancora importanti partecipazioni (Enel, Eni, Leonardo, Fincantieri, Saipem, Snam, Terna, Fs, etc) sono di fatto parcheggiate tra Cdp e il Tesoro. Non esiste una struttura pubblica preposta all’elaborazione di indirizzi industriali strategici. Le decisioni di questi fondamentali soggetti per l’economia italiana –sono tra le più grosse imprese nazionali per fatturato, investimenti, addetti e spesa in ricerca – vengono definite in seno alle imprese stesse, in isolamento e talvolta in disarmonia fra di loro. Il potenziale economico di un tale apparato industriale a controllo pubblico è ampiamente sottoutilizzato. SE L’ITALIA VORRÀ davvero incidere nei dossier industriali strategici del futuro, non potrà prescindere da una riforma istituzionale del sistema delle partecipate. Altri Paesi, anche in Europa, possono offrire dei modelli interessanti: la Francia ha delegato a un’agenzia pubblica, l’Agence des participations de l’État (Ape), la gover – nance delle principali partecipazioni (fra cui Edf, Air France, Engie, Thales, Orange, Airbus, Renault e altre). L’Ape incarna “missioni pubbliche” e una “dottrina azionaria”; produce una reportistica aggregata e individuale su aspetti finanziari e strategico-industriali delle società controllate; nomina dei “rappresentanti per conto dello Stat o” nei cda. L’agenzia si struttura per aree tematiche-settoriali, con funzionari esperti in materia finanziaria ma anche industriale. Il commissario dell’Ape siede nel Conseil de l’Industrie, l’organo che definisce le principali strategie economiche di lungo periodo per la politica industriale francese. L’Ape francese è insomma molto più simile all’Ir i di quanto non sia la celebrata (o vituperata) Cdp italiana. Oggi non sarebbe realistico ricreare dal nulla una tecnostruttura pubblica come quella dell ’Iri, ma la sua lezione rimane ancora valida: ripensare una moderna politica industriale con le imprese a controllo pubblico è certamente plausibile, se non addirittura auspicabile.
@font-face {font-family:"Cambria Math”; panose-1:2 4 5 3 5 4 6 3 2 4; mso-font-charset:0; mso-generic-font-family:roman; mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:-536870145 1107305727 0 0 415 0;}@font-face {font-family:Calibri; panose-1:2 15 5 2 2 2 4 3 2 4; mso-font-charset:0; mso-generic-font-family:swiss; mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:-536859905 -1073732485 9 0 511 0;}p.MsoNormal, li.MsoNormal, div.MsoNormal {mso-style-unhide:no; mso-style-qformat:yes; mso-style-parent:"”; margin-top:0cm; margin-right:0cm; margin-bottom:10.0pt; margin-left:0cm; mso-pagination:widow-orphan; font-size:12.0pt; font-family:"Times New Roman”,serif; mso-fareast-font-family:Calibri; mso-fareast-theme-font:minor-latin; mso-fareast-language:EN-US; mso-bidi-font-style:italic;}.MsoChpDefault {mso-style-type:export-only; mso-default-props:yes; mso-fareast-font-family:Calibri; mso-fareast-theme-font:minor-latin; mso-fareast-language:EN-US; mso-bidi-font-style:italic;}.MsoPapDefault {mso-style-type:export-only; margin-bottom:10.0pt;}div.WordSection1 {page:WordSection1;}