il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2023
Il mito di Gianni Agnelli spiegato da Marco Revelli
Se si volesse agganciare i 20 anni dalla morte di Gianni Agnelli, l’Avvocato, all’attualità di queste ore – da Matteo Messina Denaro alle sanzioni contro la Juventus – allora si dovrebbe citare Enzo Biagi. Che raccontava come il “signor Fiat”, informato che Tommaso Buscetta era bianconero, rispose così: “Se lo rivede, gli dica che è la sola cosa di cui non potrà mai pentirsi…”.
Marco Revelli, storico del movimento operaio e della povertà, preferisce invece ricordare un altro aneddoto. “Una notte, nella sua villa sulla collina di Torino, si avvicinò alla finestra. E il suo ospite gli fece notare che, in molte abitazioni, si vendevano le luci spegnersi per la notte: ‘Stanno andando a dormire’. La replica dell’Avvocato arrivò subito: ‘Lasciamoli riposare’. Sottintendendo: domani devono andare in Fiat. Agnelli, se si pensa, sta tutto qui: un po’ di cinismo, un po’ di ironia, il senso del capitalismo, ma anche un po’ di paternalismo”.
Revelli, lei parla di paternalismo. Non so quanti lo faranno ricordando quel 24 gennaio del 2003: è sicuro?
Sì. La vera cifra di Gianni Agnelli è double face. Come il giudizio del sociologo Aldo Bonomi sul nostro capitalismo: il massimo dell’innovazione accanto al massimo della mediocrità.
In che cosa, però, fu innovativo e in che cosa fu mediocre?
Fu innovativo perché portò il capitalismo sul fronte più avanzato del suo tempo: la modernizzazione del modello fordista della fabbrica, la trasformazione di Torino in una one company town. Poi c’era in lui anche il familismo amorale dell’impresa italiana: una concezione egoistica e avara di quella stessa innovazione. Qualcosa di medioevale.
Quasi un feudatario, insomma?
L’ho colto proprio in quei funerali di 20 anni fa. In quella lunghissima coda che saliva la rampa elicoidale del Lingotto per omaggiare il feretro. Non era il congedo da un capitano d’industria nella sua fabbrica, ma da un signore feudale nel suo castello. Si è detto che tra di loro c’erano molti operai che avevano lottato proprio contro il ‘padrone’ Agnelli. Ma in realtà non c’era più nulla del fiero orgoglio di quella classe operaia che la Fiat aveva prodotto al suo interno e che, al tempo stesso, era stata la sua antagonista.
Che cosa c’era di tradizionale nell’Agnelli capitalista? E che cosa di diverso rispetto al nonno, uno dei fondatori della Fiat?
Beh, l’Avvocato è stato ancora un industriale novecentesco: che se la vede con il corpo fisico della sua forza lavoro, sa che ne ha bisogno, ma cerca soprattutto di spremerla sino in fondo. Ha attraversato la fine del capitalismo produttivo e il suo slittamento verso quello finanziario: impalpabile, impersonale. Ha sempre vissuto nella stessa città dove vivevano i suoi operai: un padrone in carne e ossa con i suoi lavoratori anch’essi in carne e ossa. Ma non fu certo un demiurgo del capitalismo, come il nonno. Sino ai 45 anni trascorse una lunga dolce vita. E quando prese in mano le redini, la parabola della Fiat aveva già raggiunto il picco.
Continuiamo però a scavare: che capitalista fu?
Non aveva il carisma del fondatore, ma semmai quello di chi gestisce l’immagine del proprio potere: e ha saputo farlo alla grande. Il suo contributo più alto all’innovazione della società italiana, ma anche degli interessi della sua azienda, lo diede dopo l’Autunno caldo del 1969. Come presidente di Confindustria firmò due accordi epocali: quello sulla scala mobile, che disinnescò la questione dei salari, e quello sulla cassa integrazione speciale che permise poi le grandi ristrutturazioni.
Lei insiste su questa capacità innovativa in quella precisa epoca storica. Quello delle grandi lotte operaie, ma anche della nascita della strategia delle tensione con Piazza Fontana. Perché?
Perché allora ci fu un capitalismo che guardava alla restaurazione se non addirittura al golpismo di destra. Agnelli operò nella direzione opposta.
Il nipote proprio di quell’Agnelli che indossava la camicia nera davanti al duce?
C’è qualcosa nella sua biografia che spesso molti dimenticano. L’Avvocato ebbe come precettore un grande intellettuale democratico e antifascista: Franco Antonicelli. Questo probabilmente lo preservò da abitudini e vizi dello ‘strapaese’ fascista.
Una diversità così netta con la Fiat del nonno e di Valletta?
In quella Fiat si assumeva come responsabile della sicurezza Roberto Navale, spia dei servizi segreti fascisti e organizzatore dell’omicidio dei fratelli Rosselli, e si ponevano le basi per le schedature di sindacalisti, politici e lavoratori. L’Avvocato invece, in un’intervista, anni dopo biasimò quell’assunzione.
Segno degli insegnamenti di Antonicelli?
Senza dubbio, anche se poi Agnelli sarà assai spregiudicato: sia in politica interna che internazionale.
Qualche esempio?
Amico dei Kennedy, ma anche di Kissinger che aveva sulla coscienza il golpe in Cile e l’assassinio di Allende. In Italia, invece, pur non avendo nulla da spartire con Berlusconi, se non la passione per le donne, gli votò la fiducia nel 1996 dicendo: ‘Se vince avrà vinto un imprenditore, altrimenti avrà perso Berlusconi’. Una certa dose di cinismo che replicò quando votò per il governo D’Alema: ‘Oggi solo un governo di sinistra può fare una politica di destra’. Era fatto così.
Anche la fabbrica nella Togliattigrad sovietica o l’ingresso dei capitali di Gheddafi nella Fiat vanno letti in questa scia?
No, si tratta di due operazioni entrambe arditissime che mettevano in difficoltà i rapporti suoi personali e dell’Italia con gli Stati Uniti, ma io questa volta le classificherei comunque sotto la categoria del coraggio.
Che cosa ha dato all’Italia e che cosa si è preso?
Io direi soprattutto a Torino: alla quale la Fiat ha dato molto, a cominciare da un’identità e da una classe operaia tra le più combattive al mondo. Ma ha preso talmente tanto che oggi la città non ha ancora trovato un equilibrio.
Gli errori e le cantonate sulla Fiat?
La cacciata di Vittorio Ghidella che era il migliore al mondo nel fare auto, dando il via alla corsa di Cesare Romiti verso la finanza. E poi l’accordo con la General Motors, del tutto sbagliato sin dall’inizio.
Chi lo ha combattuto senza timori o riverenze?
La classe operaia, buona parte dei sindacati e, in certi momenti, anche una parte del Pci. Poi anche personaggi che venivano da altre culture, come il democristiano Carlo Donat-Cattin.
Chi lo ha adulato di più, invece, celebrandolo come un monarca o un mito?
Il giornalismo mainstream che lo raccontava non come un industriale, ma come un principe pre-moderno. D’altra parte lui era molto attento ai giornali e cercava di accaparrarsene più che poteva.