la Repubblica, 2 novembre 2021
Breve storia del multilateralismo
Nel luglio del 1944 — la seconda guerra mondiale non era conclusa ma tutti ormai sapevano chi avrebbe vinto — a Bretton Woods, negli Usa, furono messe le basi del sistema monetario internazionale a cui il mondo occidentale ha dovuto la ricostruzione, e la stabilizzazione democratica, per buona parte dei “Trenta gloriosi”, fra il 1945 e il 1975, quando si sono affermati lo Stato sociale, il compromesso progressivo fra capitale e lavoro, la società dei consumi.
Per gli inglesi negoziava il più grande economista del XX secolo, Keynes; ma prevalsero, com’era prevedibile, le idee americane. Il dollaro divenne la moneta di riferimento delle transazioni internazionali e il fondamento, convertibile in oro, di un sistema di cambi fissi. Nacquero allora la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, che mettevano fine all’anarchia economica da cui era nata la crisi del 1929 con le sue tragiche conseguenze. Del nuovo sistema erano protagonisti gli Stati sovrani, impegnati non più in guerre ma nella ricostruzione della propria economia, e non ancora minacciati dalla mobilità dei capitali finanziari, allora regolata e contenuta. Si trattava di un multilateralismo incompleto che riguardava solo mezzo mondo: l’altra metà era impegnata nell’economia di comando comunista. Bretton Woods (la logica dei “molti”) coesisteva insomma con Jalta, con la logica del Due, con la divisione del mondo in blocchi contrapposti. Ed era un multilateralismo corretto dalla presenza di una potenza egemone, gli Usa, il cui interesse strategico — oltre al contenimento militare dell’Urss — era consentire e assecondare lo sviluppo pacifico del benessere, almeno nelle principali realtà del mondo occidentale.
Fu data allora una risposta vincente alla questione che domina la politica e l’economia mondiale: com’è possibile che i soggetti interessati (gli Stati) possano perseguire i propri interessi strategici — che non possono essere ignorati da nessun ceto politico, ma che possono essere gestiti in modi molto differenti, pacifici o aggressivi — in modo che la loro inevitabile conflittualità sia stemperata e tenuta sotto controllo. Travolto dall’inflazione generata dalla guerra in Vietnam e poi dall’aumento del prezzo del petrolio, il sistema di Bretton Woods scomparve fra il 1971 e il 1975. Rimase la guerra fredda, fino al 1989, quando il nuovo paradigma economico affermatosi in Occidente nei primi anni Ottanta — il neoliberismo — provocò il crollo delle realtà comuniste e la conversione al capitalismo della Cina. E fu la globalizzazione.
Il turbo-capitalismo dilagò nel mondo, nel bene e nel male. La cifra simbolica delle realtà internazionali parve diventare l’Uno. Un unico modello economico, un capitalismo “deregolato” e spostato sulla finanza e sul “lato dell’offerta” (cioè non sulla domanda sociale, sui consumi); e un’unica “iperpotenza”, gli Usa, in grado di controllare il mondo e di detenere da soli la chiave dell’ammissione degli Stati alle risorse del sistema internazionale (il Washington consensus) — la formazione della Ue non fu sufficiente a riequilibrare quell’unilateralismo. All’età d’oro della globalizzazione posero fine il terrorismo, culminato nell’attentato alle Torri gemelle del 2001, e la reazione militare americana in Medio Oriente.
Ma al di là del terrorismo e della guerra contro di esso, sotto l’economia mondiale unificata si riproponevano squilibri e tensioni fra i soggetti della politica internazionale: l’unilateralismo americano degli anni Novanta fu minacciato e sgretolato dalla crescita economica della Cina e, in misura minore, dell’India; le ragioni della concorrenza economica (che riguardavano anche la Germania) si sommarono alle ragioni mai sopite del conflitto strategico geopolitico. La crisi economica del 2008 e poi la pandemia del 2020 hanno approfondito le difficoltà della globalizzazione: la politica internazionale si è evoluta verso un pluralismo conflittuale di egoismi.
I Molti nella loro veste aggressiva, insomma: tutti si sono sentiti minacciati da tutti, in una sorta di stato di natura internazionale — il cui riflesso interno è l’erosione delle società democratiche, l’emergere di populismi e sovranismi -. Una forma anarchica della politica mondiale che rilancia le logiche più elementari della sovranità, la competizione con le altre sovranità, in un disordine globale economico e militare che non solo ha in sé pericoli oggettivi — si pensi alle frizioni fra la Cina e gli Usa — ma che rende impossibile rispondere alle nuove sfide: il cambiamento climatico e il Covid. Che sono sfide globali, la cui soluzione, difficile, esige se non la giustizia fra le nazioni almeno un tasso di ragionevole collaborazione fra i grandi del mondo — altrimenti, il problema di far coesistere in pace la pluralità delle sovranità e dei loro legittimi interessi è insolubile, e si corre anche il rischio che la cifra futura della politica internazionale sia lo Zero, il collasso -.
Il “nuovo multilateralismo” menzionato da Draghi — la conversione dell’egoismo in calcolo lungimirante — si dovrà collocare al di là tanto dell’egemonia unilaterale, ormai impossibile per chiunque, quanto dell’anarchia globale, ormai insostenibile per tutti. E che questo sia il risultato reale e non solo verbale del G20 di Roma, e trovi prosecuzione al cop 26 di Glasgow, è, più che una speranza, una necessità: la politica ha oggi il suo più alto e complesso banco di prova.