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 2023  gennaio 21 Sabato calendario

Intervista a Levante

La cantautrice Levante (vero nome Claudia Lagona), dopo la nascita della figlia Alma Futura, ha scritto una canzone, Vivo, che porterà al Festival di Sanremo (al via il 7 febbraio) e sarà contenuta nel nuovo album Opera Futura (in uscita il 17), in cui canta «un momento buio per me, il post parto». La scrittrice Alessandra Sarchi nel romanzo Il dono di Antonia (Einaudi Stile libero, 2020) racconta l’ambivalenza dei sentimenti legati alla maternità. «La Lettura» le incontra in una fredda giornata milanese, appena dopo gli ascolti stampa dei brani sanremesi.
Le prime reazioni a «Vivo» sembrano buone.
LEVANTE – Sapevo che, affrontando un tema del genere nel modo in cui lo affronto, ci sarebbero stati fraintendimenti. Di primo acchito arriva una carnalità che poi c’è in tutto il disco, in cui descrivo i sentimenti anche attraverso la pelle in modo diverso dal precedente Magmamemoria (2019) in cui tutto è quasi impalpabile. Ma in questo brano il corpo non è stato il mio primo pensiero. Nel ritornello dico: «vivo un sogno erotico», ma quello arriva dopo un lungo elenco di «vivo», e prosegue con «la gioia del mio corpo è un atto magico». Questa parentesi di desideri l’ho scritta il 4 marzo 2022, tre settimane dopo il parto, mentre mi trovavo in una stanza nera, un periodo buio. Quell’elenco era un: voglio vivere come viene, voglio vivere il male voglio vivere il bene, voglio vivere tutto intensamente, voglio riprendermi il mio corpo, riconoscermi, voglio anche riprendermi la mia sessualità… Ma non è il fulcro. Parlo di depressione, di qualcuno che si vuole ritrovare. Per questo sottolineo il momento e l’intenzione con cui la canzone è stata scritta. È una cavalcata che nel susseguirsi di desideri, oltre a me che la canto, fa venire il fiatone a chi l’ascolta.
Alessandra Sarchi, invece, che cosa ha colto dall’ascolto di «Vivo»?
ALESSANDRA SARCHI – Dalle informazioni che avevo letto prima dell’ascolto avevo capito la motivazione e il contesto che tu dai. Dici: «Vivo un sogno erotico» perché creare, soprattutto una vita, è una atto di eros; «La gioia del mio corpo è un atto magico» perché qualsiasi trasformazione compie una metamorfosi e ci porta a un’identità nuova e che non sapevamo di avere. Per me era chiaro si riferisse al momento in cui, dopo il parto, una donna ha bisogno di riprendere la propria fisicità, il contatto con quello che era e anche con ciò che sarà. Però al tempo stesso durante la gravidanza, ma anche dopo, io sentivo il mio corpo come qualcosa di molto erotico, non in senso di sessualizzato, ma come pieno di vita.
LEVANTE – L’erotismo qui, infatti, è più metaforico, è lo slancio verso la passione. Io mi sono sentita sì piena di vita, però tutto fuorché qualcosa a cui volere bene. Non mi sono amata particolarmente. Il post-parto per me è stato: adesso io dove sono? Però tu, madre (la voce è rotta dal pianto) devi essere felice perché stai dando la vita, perché stai facendo qualcosa di speciale. E, sì, sento di avere fatto una cosa speciale. Qualcuno direbbe: «Da che mondo è mondo»... Ma quella è la tua prima volta e il tuo mondo. E quindi la gioia si mischia a un abbandono, abbandoni una te stessa e devi trovarne un’altra. Non si tratta del corpo ma della testa. C’è questo contrasto tra il senso di colpa del dolore e il dovere essere felici, qualcosa di molto forte e difficile da controllare. E ci si sente sole. Io ho un compagno favoloso, tra noi due Pietro è il genitore migliore, ma anche se lo desiderava non poteva sostituirsi a me. È una solitudine biologica, che non puoi evitare: ci sei tu e c’è la tua creatura. Poi passa; piano piano tutto diventa più nitido e ti riprendi tutto.
ALESSANDRA SARCHI – Sul diventare madri c’è tanta pressione sociale: ci sono le aspettative tue personali, quelle degli altri, il contesto... Adeguarsi a un modello, ma quale? E poi c’è il rapporto con questa creatura che ti cresce dentro, è parte di te ma a un certo punto si stacca, perché è l’unica cosa che deve e può fare, e tu ti ritrovi a dire: ma come? adesso io cosa devo fare?
Ne «Il dono di Antonia», Alessandra Sarchi descrive i primi mesi dopo il parto. La protagonista si confronta con altre madri che come lei stanno affrontando l’anoressia delle figlie già grandi: «Tutte e tre avevano ben presenti i giorni e le notti fra il parto e i primi mesi di vita, i picchi ormonali che lievitavano in euforie improvvise o spingevano in cupezze sinistre, e la sensazione pervasiva di un’altra vita, che prima era dentro, poi era fuori, e pur essendo distinta era anche unita».
ALESSANDRA SARCHI – Nel tuo testo, Claudia, ritrovo la trasformazione, l’essere catapultati. Come dicevi, ci sono funzioni fisiologiche che solo la mamma può svolgere, però se ci pensi questo è anche un privilegio. La maternità è l’atto trasformativo, l’atto creativo per eccellenza. Se in una stanza con cento persone c’è una donna incinta, tutti la guardano perché attira nel suo essere qualcosa di estremamente creativo, come un’opera d’arte. Dici che nella canzone non parli del corpo, però parli di uno stato che è fisico e mentale. C’è un passaggio dal buio alla luce che ritrovo spesso nelle tue canzoni: è una trasformazione che fa parte della vita, la più grande che c’è, e accetti che devi passarci attraverso.
LEVANTE – Alma non era nei miei progetti ma oggi non saprei fare a meno di lei. Mia nonna, donna sicula tutta d’un pezzo, poche smancerie e tanti fatti, quando le dissi che ero incinta mi guardò e mi disse: «Sono contenta, da solo non è buono nuddu manco in paradiso». Per me rimanere sola voleva dire non avere responsabilità, non rischiare che la vita mi ferisse ancora; evitare che qualcuno potesse ricreare il vuoto creato dalla morte di mio padre quando avevo nove anni. Oggi potrebbe riaccadere, però sto rischiando di vivere molto di più.
ALESSANDRA SARCHI – Il tuo brano racconta di un attraversamento della vita a seguito di un cambiamento. Quale sia il cambiamento in realtà non lo specifichi. Se non si conosce il contesto, si possono identificare altri cambiamenti, altri momenti di buio. Era ciò che volevi?
LEVANTE – Sì. Io parlo di un buio, non importa quale sia, ognuno di noi ne vive uno. Proietti la tua interiorità in quello che crei e poi diventa di tutti. Vivo potrebbe raccontare le vite, il buio e anche la speranza di molti… C’è molta speranza in questo brano.
ALESSANDRA SARCHI – È interessante che contestualizzando tu parli della tua esperienza. In un libro che ti consiglio, Linea nigra (La Nuova Frontiera, 2022), la scrittrice messicana Jazmina Barrera, dice che vorrebbe ci fossero migliaia di memoir di donne che raccontano il diventare madri. E anche la britannica Rachel Cusk in Il lavoro di una vita (2001; Einaudi, 2021) dice: finalmente esiste la possibilità di dare una forma artistica a questo tema. Sono passaggi di soglia che viviamo come marcanti: da fuori tendono a essere normalizzati, quando invece hanno la loro parte d’irriducibilità.
LEVANTE – Il mio non è un manifesto. La musica è sempre stata per me salvifica, sono sempre stata sincera nei confronti di questo atto creativo e ora avevo semplicemente bisogno di scrivere queste parole, poi magari qualcuno si riconoscerà in questa canzone. In questi anni tantissime ragazze mi hanno scritto dicendomi: sono incinta ma non sono felice, non perché non voglio avere un figlio, ma perché sono in un momento di paura, ma non posso esprimerlo... Come puoi essere infelice in questo momento? Non pensi a tutte le donne che non possono avere figli? Io voglio semplicemente raccontare quello che ho vissuto e magari qualcuno che ascolterà il brano riuscirà a capirmi e a capirsi.
ALESSANDRA SARCHI – Quello della mamma perfetta e felice è uno stereotipo difficile da sconfiggere. In una narrazione più vera dovrebbe esserci spazio anche per il lato meno luminoso della maternità.
ALESSANDRA SARCHI – Da qualche parte hai detto di voler portare Alma con te nella tua vita artistica. Le famiglie artistiche mi affascinano e spaventano, ma credo sia molto bello condividere con i figli passioni così totalizzanti come la tua per la musica, o la pittura e tutte le forme artistiche che usi. Inoltre oggi va tanto di moda mettere continuamente i figli sui social, ma mi pare una forte violazione dei diritti: che cosa ne pensi?
LEVANTE – Voglio proteggere il volto di Alma, per una questione di sicurezza. Se esponi i tuoi figli li costringi a vivere in una gabbia d’oro. Invece, per quanto riguarda le mie passioni, spero che Alma faccia l’ingegnere. Batte già le mani a ritmo e questo mi spaventa. Ma d’altra parte chi sono io per tarparle le ali se ha un animo creativo? Credo che su questo non si debba diventare troppo ossessivi ma lasciare che le cose vadano nella loro direzione senza ostacolarle o spingerle. Ma, appunto, è un lavoro che dura tutta la vita.
ALESSANDRA SARCHI – Sul dare la libertà ai figli, Jessie Greengrass in Sight (Bompiani, 2019) descrive una scena che mi commuove nel profondo: la figlia le getta al collo le braccia in un abbraccio: «La mia reazione è di straziante gratitudine, ma devo nasconderla, perché lei, avvertendone il peso, non diventi impacciata e non sia più in grado di fare ciò per cui è nata, allontanarsi da me». L’ho sentito con mia figlia che da piccola scriveva, rilegava libri con il nonno, l’ho sempre lasciata fare ma mi sono resa conto di essere ingombrante per lei. Poi la ribellione adolescenziale è stata la sua liberazione ed è arrivata a fare tutt’altro. Bisogna però trovare il tempo giusto, come dici: assecondare la loro natura.
Dal punto di vista musicale come è nata «Vivo»?
LEVANTE – Voce e piano. Ora ha un’attitudine quasi elettronica, ma nasce nella malinconia di un pianoforte scordato.
ALESSANDRA SARCHI – E gli altri brani dell’album, come sono arrivati?
LEVANTE – Questo mio quinto album è un disco strano, parla di una me che prima non conoscevo. All’inizio si intitolava Opera, poi è diventato Opera Futura, ed è perfetto perché dentro si trova qualcosa che ancora sto scoprendo. Al di là del parto, di Alma, sto crescendo, vado verso altre isole. C’è un po’ la rabbia canalizzata dei miei inizi. Analizzo anche ciò che è intorno a me, con uno sguardo alla società, al digitale che è la nostra seconda realtà, esiste e la dobbiamo affrontare, e quindi la critico. Mi sono accorta che mi ha stufato.
ALESSANDRA SARCHI – Io sono stanca dei social, troppo invadenti nelle nostre vite, troppo difficili da arginare. Un mondo che non ha odore e sapore: mi manca il contatto con le persone, le cose.
LEVANTE – Nell’ultimo anno me ne sono un po’ staccata. Ho iniziato a vederci il ripetersi di format, cose che avevo già fatto dieci anni fa.
ALESSANDRA SARCHI – E poi mi ammazzano la creatività. Il problema con la tecnologia è antico, se lo ponevano anche i greci: fino a che punto si può arrivare? C’è un momento in cui la tecnologia ha il sopravvento e non la controlli più. L’estremo è la bomba atomica... Ma non controlliamo più neppure i social. Sono diventati troppo pervasivi, tanto che nei bambini causano depressione, negli adulti noia, fastidio, invidia, rabbia... Di tutte le forme di rappresentazione che l’umanità ha inventato, la rete è la più strana e deformante, perché è una seconda vita ma non è la vita reale: è un luogo in cui più che esistere ti rappresenti. Come tutti i luoghi di rappresentazione lo trovo affascinate, ma anche inquietante. Nei più giovani comincio a cogliere una disaffezione, iniziano a sviluppare vaccini naturali.
LEVANTE – Nell’album ci sarà anche un po’ di nostalgia, quella che si prova perché si è già nel futuro.
Il colore dell’album è il verde.
LEVANTE – Mi muovo per colori: Magmamemoria era rosso, Nel caos di stanze stupefacenti blu, Abbi cura di te bianco, Manuale distruzione sabbia. Quando nel 2020 ho iniziato a scrivere questo disco ho subito visto il verde, forse per il bisogno che tutti avevamo in quel momento. Verde è anche la copertina del romanzo E questo cuore non mente (Rizzoli), che ho scritto nel 2020.
Sulla cover del disco, tiene in braccio un cigno.
LEVANTE – Non era la mia prima scelta, avrei voluto una tigre perché Alma è nata nell’anno della Tigre. Ma poi... Il verde è la speranza, la natura, ciò che rinasce e nelle mie ricerche ho trovato un verso di Emily Dickinson: «La speranza è quella cosa piumata». Tra gli animali con le piume ho pensato al cigno, che sa stare in cielo, in terra e nell’acqua, che in più è simbolo di bellezza, leggerezza. Quando l’ho tenuto in braccio, mi sembrava quasi di abbracciare mia figlia.
ALESSANDRA SARCHI – Mi affascina molto questo cigno in copertina perché è un animale che ha anche molta ambivalenza. Come dici tu è bello, sofisticato; però porta con sé anche la doppiezza, simboleggia l’androgino. Poi mi fa pensare al mito di Leda e il cigno. Nel museo archeologico di Monaco c’è una statua bellissima: il cigno, che in realtà è Zeus, la avvolge con le sue piume. È marmo, quindi freddo, ma ne senti il calore.
LEVANTE – Planando è arrivato nei miei pensieri. Così ho trovato il mio animale...
ALESSANDRA SARCHI – Mi viene in mente Lucio Battisti: «Planando sopra boschi di braccia tese», da La collina dei ciliegi, dove canta: «Perché tu non ti vuoi azzurra e lucente», cioè: smetti di aderire alla tua tristezza.
LEVANTE – Battisti è arrivato ovunque. Anche se devo dire che il mio Lucio è di Bologna: Dalla. Non a caso mia figlia si chiama Alma Futura e il disco Opera Futura (la canzone Futura di Dalla è del 1980, ndr).
ALESSANDRA SARCHI – Dalla è nato il 4 marzo, anch’io sono nata quel giorno.
LEVANTE – Giorno in cui ho iniziato a scrivere Vivo.