La Lettura, 21 gennaio 2023
I cent’anni di Papetti
Oltre che dalla Nuova Fiat 500, dalle spiagge romagnole d’agosto e da Carosello, la trasformazione antropologica degli italiani negli anni Sessanta fu segnata, forse propiziata, da un sassofonista. No, non parliamo di John Coltrane e nemmeno di Charlie Parker, ma di un più modesto, e per questo tanto più accessibile, strumentista varesino che si chiamava Fausto Papetti e del quale si celebra in questi giorni il centenario della nascita (qui sopra il musicista nel 1977: foto Giancolombo/Archivio Corsera).
Era venuto al mondo infatti il 28 gennaio 1923 a Viggiù, paese celebre per i suoi pompieri, a due passi dalla Svizzera. Nel dopoguerra il giovane Fausto si era avvicinato al jazz, suonando il clarinetto e soprattutto il sax: si divideva fra il sassofono contralto (lo strumento che poi userà per i suoi grandi successi) e il sassofono baritono, con i quali contribuiva soprattutto ai ripieni orchestrali; alla fine degli anni Cinquanta lo fece anche in qualche disco di importanti jazzisti americani di passaggio in Italia, Bud Shank e Chet Baker. Nel frattempo Papetti guidava anche un proprio gruppo, i Menestrelli del Jazz, con jazzisti italiani di buona fama. Ma la svolta avvenne quando, nel 1959, incise una versione per piccolo gruppo della colonna sonora di un film di Valerio Zurlini, Estate violenta. Il disco vendette bene e la casa discografica, la Durium, gli propose di realizzare un intero album con quella logica. Se però in Estate violenta c’era ancora qualche traccia di jazz (qualcosa di Django Reinhardt e di Sidney Bechet: quel jazz «alla francese» che allora profumava di esistenzialismo), la rilettura di altre colonne sonore come Scandalo al sole e La dolce vita, presenti nel primo long playing, fissava già il canone del «nuovo» Fausto Papetti: tempi morbidi, ritmi languidi, timbro ammiccante, per produrre una serie di «ballabili» per ogni età.
La formula ebbe grande successo, i dischi del sassofonista si moltiplicarono (con l’immancabile titolo Raccolta numero..., a minacciare una sequenza di album infinita come i numeri interi) e divennero la colonna sonora di un decennio o due. Grazie anche a un paio di innovazioni: la diffusione della musicassetta (e della sua variante molto usata in auto nei lunghi viaggi, lo Stereo8), che favoriva l’ascolto della musica più disimpegnata, e la spettacolare trasformazione grafica delle copertine. I dischi di Papetti, infatti, iniziarono a proporre immagini femminili sempre più disinibite, che associavano la musica del sassofonista a un immaginario di spiagge, feste intime, felici conclusioni di avventure estive. I seni e i fondoschiena nudi si sprecano, nelle «raccolte» di Papetti, con un gusto appena più elevato di quello dei manifesti per camionisti (ma seppero sempre evitare l’occhiuta censura dell’epoca), connotando forzatamente anche la musica che avvolgevano. Che però ebbe i suoi punti di forza. Nel Paese del belcanto, Papetti diffuse il piacere per la musica strumentale (non è da escludere che più di un utente desse vita con quei dischi a caserecci karaoke ante litteram) e l’abitudine al timbro di uno strumento ancora esotico. Non a caso il Museo del Saxofono, benemerita istituzione di Fiumicino (Roma), celebra il centenario di Papetti (che morì a Sanremo nel 1999) con una mostra e vari concerti dal 28 gennaio al 25 febbraio.