Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  gennaio 21 Sabato calendario

Racconto di un viaggio da cani

Anni fa i treni veloci erano meno veloci, e i vagoni divisi in scompartimenti.
Mentre raggiungevi il tuo, davi un’occhiata alle persone sedute negli altri come in vetrina: gente allegra, ragazze e ragazzi, colori, scherzi, gite, sorrisi. In attesa di scoprire chi sarebbe toccato a te.
Ed erano sempre un prete, o due suore, o dei vecchi.
Quel pomeriggio, infatti, una vecchia.
Sono entrato e l’ho salutata, e le vecchie – come l’intero genere umano – si dividono in due categorie: piacevoli e no. Questa, era no.
Ma andava bene così. Dovevo rileggere delle bozze, non desideravo conversazioni. Mi sono seduto, ho posato i fogli sulle ginocchia, la matita in mano.
E la signora:
— Lei scrive?
No, era la risposta giusta.
Perché ogni lavoro si trascina la sua condanna: quando dici che sei un medico, ti mostrano subito in che punto hanno un dolore. Quando dici che sei psicologo, ti confessano che la notte sognano di fare l’amore con la loro madre vestita da vigile urbano. E quando viene fuori che scrivi, ogni persona al mondo ti dirà:
— Ah, se le raccontassi la storia della mia vita, ci scriverebbe un romanzo.
E purtroppo, dopo quel «se le raccontassi la storia della mia vita», iniziano a raccontartela davvero. La loro vita intera, la loro vita unica, da romanzo. La loro vita noiosissima.
Per questo avrei dovuto rispondere che no, non scrivevo. Che di lavoro costruivo stampanti, e queste erano bozze di prova per controllare se l’ultimo modello lavorava bene. Invece, stupido:
— Sì.
E la vecchia:
— Ah, se le raccontassi la storia della mia vita, ci scriverebbe un romanzo.
Come il treno, la signora era partita e non la potevo fermare più. La sua vita era iniziata, finita la mia.
Mi raccontava di come aveva conosciuto suo marito. Erano giovani e innamorati, è arrivata la guerra, è stata lunga e dura, poi la guerra è finita e loro si sono rimboccati le maniche, hanno messo su casa e fatto due figli, che sono cresciuti, si sono laureati, gli hanno dato cinque nipoti, però intanto suo marito è morto, e lei ogni inverno passa un mese alle terme col suo gruppo di amiche.
Avanti così, il treno nella campagna tra Lazio e Toscana, noi nelle vicende della vecchia, che se davvero si scrivesse un libro su ognuna di queste vite uniche, i romanzi sugli scaffali sarebbero ancor più banali di quanto già non siano.
Le nostre vite sono tutte così, all’inizio si è giovani, poi si invecchia, la guerra è brutta, il dopoguerra duro ma appassionante, i figli crescono, i mariti muoiono sempre per primi, e un esercito di vedove immortali tiene in piedi l’economia del turismo termale.
E io ascoltavo, annuivo, il buio spietato del pomeriggio invernale mi impediva pure il conforto del panorama al finestrino.
Ma mentre la signora mi descriveva certe infinite colazioni in accappatoio ad Abano Terme, all’improvviso le suona il cellulare.
Non esistevano da molto, ma lei già lo aveva, e ancora oggi ogni squallore, ogni idiozia, ogni strage di cervelli e cuori che quotidianamente opera il maledetto cellulare, io li perdono tutti quanti per i tre squilli che quel giorno hanno interrotto il racconto della signora.
Ha risposto, e il telefono aveva il volume a cui lo tengono i vecchi, cioè più alto che si può. Quindi sentiva lei e sentivo anch’io.
Sentivo un cane.
Lei:
— Ciao Mirtillo, come stai? No, ti ho detto alle sei, manca ancora un po’.
Di là:
— Bau. Bau. Bau.
— Sì, sì, viene la zia Ines, mi porta subito a casa. Ma tu hai mangiato?
— Bau. Bau.
— Hai mangiato le tue cose, o ti sei fatto dare quel che so io?-, la signora ha alzato gli occhi ai miei, un sorriso furbo.
— Bau. Bau.
— Ecco, lo sapevo! Ma fra poco arrivo e ci penso io. Come hai detto? Sì sì, qui tutto bene, ma tu non stare sempre seduto eh, muoviti un po’, ti fa bene alle articolazioni. Ciao Mirtillo, ciao ciao ciao.
— Bau bau bau.
Fine della telefonata. Silenzio. Il ferro delle ruote sul ferro dei binari. Il buio umido intorno. I miei occhi alla vecchia, spalancati.
E lei:
— Sa, il mio cane parla.
— Ah. Bene.
— È strano, lo so, ma lei mi guarda così solo perché non conosce Mirtillo.
— No, ma non la guardo in nessun modo, signora. Pensavo a cose mie.
— Lei non mi crede.
— Ci mancherebbe, le credo eccome. Se me lo dice, ci credo.
— Nemmeno Don Glauco ci credeva. Adesso lui e Mirtillo si fanno certe chiacchierate.
— Ma infatti signora, infatti.
Continuava a guardarmi, con un occhio più stretto per mettermi a fuoco. Poi uno scatto del braccio, il telefono in mano. Ha premuto qualche tasto, se l’è messo all’orecchio:
— Ines, sono io, passami Mirtillo —, poi il telefono l’ha passato a me.
Che davanti al suo sguardo attento sono rimasto ad ascoltare:
— Bau. Bau.
Negli occhi della vecchia iniziavo a riconoscere la delusione del vedermi sperso e zitto. E tra le molte cose che non so fare, una è deludere le vecchie. Quindi:
— Buonasera, Mirtillo, il piacere è mio. No, io scendo dopo, ne ho ancora fino alle otto, però si sta bene. Sì, ma certo, volentieri, alla prima occasione. Adesso la saluto, e mi raccomando un po’ di movimento per le articolazioni. Arrivederci e tante care cose.
Ho annuito agli ultimi Bau bau e ho restituito il telefono alla vecchia, raggiante:
— Ha visto? Cioè, ha sentito? Il mio cane parla.
Ho fatto di sì. Una volta, due.
E forse lei stava per ripartire col racconto dei suoi giorni alle terme, ma ho iniziato io a farle delle domande. Su Mirtillo, su quando aveva iniziato a parlare, su cosa diceva. Come vedeva il mondo, cosa gli andava e cosa no. E intanto appuntavo ogni particolare nel taccuino della mente. Perché questo sì era un romanzo, o un racconto, o insomma qualcosa. Di suo, di vero, di unico.
Niente di quel che le persone ti offrono di sé vale qualcosa, conoscere davvero la loro meraviglia è un lavoro da ladri. È andare a casa loro, e mentre ti mostrano il divano nuovo aprire i cassetti in cerca dell’argenteria. È chiedergli di usare il bagno, per rovistare nel mobiletto delle medicine.
Là c’è la verità, ci sono i tesori nascosti.
Come l’amore di Mirtillo per le canzoni di Claudio Villa, la sua diffidenza verso i cani magri, le sue insospettabili tendenze politiche.
La vecchia me le raccontava mentre il treno continuava il suo viaggio sui binari, che come ogni cosa dritta, fissa e stabilita è solo una gabbia e una bugia.
Nessuno ti regala le sue storie, solo chiacchiere, sciocchezze, cianfrusaglie. Le cose preziose devi andarle a prendere da solo. Nello smisurato orizzonte dove i binari si perdono, i cani parlano, e le storie iniziano a brillare.