La Lettura, 21 gennaio 2023
L’ultimo libro di Cormac McCarthy
Luciano Berio, presentando in un’intervista il suo finale della Turandot lasciata incompiuta da Puccini, spiegò nel 2001 che gli appunti del maestro «sono numerosi e interessanti, e qui e là addirittura sperimentali, con accenno di una serie dodecafonica». Puccini, il compositore delle emozioni forti e delle indimenticabili armonie, in punto di morte stava insomma anticipando Arnold Schönberg. È patrimonio dei più grandi classicisti diventare radicali con il passare del tempo, illuminando la loro vecchiaia artistica con la luce del nuovo.
Melville scrive in Moby Dick che «per produrre un grande libro, bisogna scegliere un grande argomento. Nessuna opera grande e duratura potrà mai venire scritta sulla pulce, benché molti abbiano tentato». È il romanzo preferito di Cormac McCarthy, la sua stella polare. Attraverso dieci romanzi, dal 1965 al 2006, ha sempre scelto grandi argomenti. E nei sedici anni di silenzio passati dall’uscita di La strada (Einaudi) ai sorprendenti due volumi di The Passenger e Stella Maris appena usciti negli Stati Uniti, McCarthy ha aperto – sembra impossibile, alla vigilia dei 90 anni – una nuova fase, un nuovo periodo. Dagli inizi faulkneriani (con una spruzzata dickensiana in Suttree) al capolavoro assoluto, omerico, di Meridiano di sangue che secondo Harold Bloom è con Moby Dick e Mentre morivo il grande romanzo americano che apre la sua fase melvilliana, un Melville del West che attraverso la «trilogia della frontiera» (Cavalli selvaggi, Oltre il confine, Città della pianura tutti tradotti in Italia da Einaudi) racconta la violenza che scorre, fatalmente, nelle vene dell’America («Non morirò mai» grida, ballando oscenamente nel momento del trionfo Judge Holden, il terribile protagonista di Meridiano di sangue in quel finale che da quattro decenni fa accapponare la pelle ai lettori).
Stella Maris è uscito poco più di un mese dopo The Passenger (entrambi per Knopf; in Italia appariranno per Einaudi da aprile; di questo romanzo abbiamo scritto sul «Corriere della Sera» del 27 ottobre scorso) perché si tratta di un dittico, è il secondo volume di un unico libro, da leggere evidentemente in quest’ordine per l’autore anche se una scrittrice di enorme intelligenza come Joy Williams nella sua recensione (entusiastica, come la maggioranza di quelle americane) ha provato a domandarsi se non sarebbe forse meglio partire da Stella Maris.
Stella Maris – «Stella del mare», appellativo della Vergine Maria molto amato dai marinai – è un romanzo ancora meno tradizionale di The Passenger perché alla soglia della sua decima decade McCarthy (incredibile che una generazione come la sua, quella di Philip Roth e Don DeLillo e Richard Ford e Thomas Pynchon sia stata ignorata dai Nobel, i critici del futuro non lo dimenticheranno) non è mai stato così radicale. Nei mezzi e nei fini.
Stella Maris è una raccolta di transcript di sette sessioni della co-protagonista del dittico, Alice Western, una sorta di pièce (Dwight Garner sul «New York Times», sempre acuto, l’ha paragonata al teatro intellettuale di Tom Stoppard) nella quale la ragazza ricoverata in un ospedale psichiatrico racconta la storia della sua vita, delle sue allucinazioni, del suo amore incestuoso per il fratello Bobby protagonista di The Passenger.
Alice (all’anagrafe, ma da ragazzina sceglie di cambiare il nome e diventa Alicia) è un genio. Della filosofia. Della musica. Della matematica. E il suo genio è la sua condanna: il genio è morte e (auto) distruzione nel mondo di McCarthy. E nel «suo» libro l’Alice di McCarthy – che nella prima pagina di The Passenger ci ha rivelato la fine del suo personaggio, la mattina di Natale del 1972 – dà la sua versione dei fatti che nel primo libro ci aveva raccontato Bobby, suo fratello, ex pilota di Formula 2 e poi sub nel Golfo del Messico. A chi credere? McCarthy ci sfida, mantenendo il suo linguaggio inimitabile e come sempre dallo spelling personalissimo, «cormachiano» (per esempio: «Non sono sicuro di afferrare» viene scritto, sic, «Im not sure i understand», senza apostrofo in «I’m», e con la «I» minuscola) al di là o, meglio, al di sopra delle regole della lingua inglese.
Fa lo slalom, come uno sciatore, tra le aspettative del lettore: crea per la prima volta una vera protagonista femminile e attraverso di lei ci racconta quello che Roberto Calasso chiamò «l’innominabile attuale» che è il centro del lavoro più recente di McCarthy da La strada a qui. Alice e Bobby sono figli di uno scienziato del progetto Manhattan, nati a Los Alamos, figli letteralmente della bomba atomica, figli di «Auschwitz e Hiroshima, gli eventi fratelli che hanno segnato per sempre il destino dell’Occidente», la volontà di autodistruzione della civiltà – l’innominabile attuale appunto.
Come si gestisce una seconda parte senza descrizioni, fatta solo di dialoghi tra due personaggi, Alice e il dottor Michael Cohen destinato a essere aggirato, lasciato nella polvere, spiazzato dall’intelligenza spaventosa della sua paziente che riflette su Wittgenstein, sulla «matematica come tautologia», e su un tema che a McCarthy, da un ventennio membro del think tank del Santa Fe Institute, sta molto a cuore: l’inconscio. Riflette Alice: «Gli psichiatri hanno difficoltà a trattare con l’inconscio in modo diretto. Ma l’inconscio è un sistema puramente biologico, non magico... L’inconscio è semplicemente una macchina per manovrare un animale (questa è, parola per parola, una frase di un articolo scientifico pubblicato da McCarthy nel 2016, ndr). Cos’altro potrebbe essere? La maggior parte di ciò che facciamo è inconscio. Affidare le faccende alla mente cosciente è un affare rischioso. Balene e delfini devono sincronizzare il loro respiro con il momento in cui emergono. Quindi, ovviamente, quando sono stati anestetizzati per la prima volta per un intervento chirurgico, sono semplicemente morti. Cosa che avrebbe dovuto essere prevedibile. L’inconscio si evolve insieme alla specie per soddisfare i suoi bisogni e se c’è qualcosa di sinistro in esso è che a volte sembra anticipare quei bisogni. Non può permettersi sorprese. È una delle cose che ha turbato Darwin. Ma i dottori dell’anima non capiscono niente di tutto questo. Sono cartesiani fino all’osso». Ecco, Alice sfida il souldoctor, tutto attaccato, il dottore dell’anima che forse è soltanto l’ennesima allucinazione del freak show che emerge per l’appunto dal suo inconscio e dalle tenebre della sua schizofrenia (in The Passenger un tetro spacciatore chiede a Bobby come sia possibile amare «un mondo di carta», quello dei libri).
Qui McCarthy tesse una ragnatela finissima che nell’apparenza del transcript da nastro magnetico d’una conversazione medico/paziente si avvale in realtà della teoria di E. M. Forster sulla differenza tra «tempo reale» e «tempo narrativo». Scrive Forster: «Mentre pronuncio questa conferenza, posso udire o non udire il tic-tac di quell’orologio, posso conservare o smarrire il senso del tempo; mentre in un romanzo un orologio c’è sempre. L’autore può anche provare antipatia per il proprio orologio: Emily Brontë, in Cime tempestose, tentò di nasconderlo; Sterne, in Tristram Shandy, lo ha capovolto. Ancora più ingegnoso, Marcel Proust spostava di continuo le lancette».
Invece Cormac McCarthy ci dice a pagina 1 di The Passenger che il tempo, narrativo e reale, di Alice, è limitato. In Stella Maris lascia a lei la parola, con il lettore che sa che la clessidra si sta svuotando rapidamente, e nell’ultima pagina – nell’ultima riga – viene letteralmente preso per mano da Alice.