La Lettura, 21 gennaio 2023
Un romanzo sui nove mesi durante i quali Adolf Hitler venne concepito
Il nazismo e la Shoah sono una questione di famiglia, per Régis Jauffret. Sua madre accolse a Marsiglia con la Croce Rossa alcuni sopravvissuti dei lager e suo padre venne arrestato dalla Gestapo. Guardando una trasmissione televisiva sull’occupazione, quattro anni fa lo scrittore francese riconobbe per caso, per qualche secondo, nelle mani di tre agenti nazisti, il papà, «quell’uomo che doveva avere 27 o 28 anni in quel momento, invecchiato dal terrore». A quella vicenda Jauffret ha dedicato Papà, tradotto in Italia nel 2020 da Edizioni Clichy che adesso pubblica in anteprima mondiale 1889, «il romanzo sui nove mesi durante i quali Adolf Hitler venne concepito, crebbe nel ventre di sua madre e poi nacque», dice Jauffret.
1889 è un libro sconvolgente, dominato non tanto dall’orrore che verrà, ma da quello che già esiste in quella spaventosa coppia di Braunau am Inn, nell’Austria settentrionale, composta dal funzionario delle dogane Alois Hiedler, cognome poi cambiato nel più borghese Hitler («sicuramente un verme, ma anche un imbecille»), e dalla moglie sottomessa e maltrattata, Klara Pölzl.
Durante un primo matrimonio d’interesse con Anna Glassi, già malata, che non gli darà figli, Alois Hiedler mette incinta la domestica diciannovenne Franziska Matzelberger. Dopo la morte di entrambe, Aloïs sposerà la nipote Klara, 24 anni, anche lei domestica e anche lei violentata e già ingravidata, di 23 anni più giovane. Klara concepirà con lo Zio, così lo chiama, sei figli. Oltre a Paula solo Adolf, nato il 20 aprile 1889, sopravviverà. Purtroppo.
Una domanda preliminare: come mai «1889» esce in Italia per Clichy prima che in Francia per Gallimard o Seuil?
«Mi ha colpito l’entusiasmo di Tommaso (Gurrieri, direttore di Edizioni Clichy e traduttore del romanzo, ndr): gli ho mandato il testo un pomeriggio alle 17 e la mattina dopo lo aveva già letto, analizzato, commentato. Gli editori francesi sono più lenti».
Perché ha deciso di scrivere sulla gravidanza della madre di Hitler?
«Esistono già opere sull’infanzia di Hilter, ma le trovo grottesche perché si tende a descriverlo come quel che sarebbe diventato, quando invece non dava segnali particolari, non era un bambino violento. Non si riesce a trovare Hitler nella sua infanzia. Il mio approccio è diverso, sono attratto dal momento in cui Hitler esiste nel ventre di sua madre ma non è ancora nato, e la gravidanza potrebbe interrompersi in qualsiasi momento».
Il seme dell’orrore era fragile?
«Molto, ed è questo pensiero che mi ha turbato. All’epoca molte gravidanze non arrivavano al termine, e poi molti bambini non superavano i primi anni di vita, come è accaduto ad altri quattro figli di Alois e Klara. Lui no, ha resistito. Il destino del mondo e di generazioni e generazioni successive avrebbe potuto essere totalmente diverso. Cosa sarebbe successo al mondo se gli eventi di quel giorno, o anche di quell’ora, avessero seguito un altro corso? È un’idea che toglie il respiro».
Non crede che il nazismo sarebbe nato lo stesso?
«No. Non in quel modo. E la Shoah non sarebbe stata commessa».
Eppure nel suo romanzo lei descrive una società austriaca del tempo come profondamente antisemita.
«Sì, come purtroppo accadeva in molti Paesi».
Il padre di Hitler era ferocemente antisemita, come lo era pure il prete.
«Certo, ma la Shoah fu un’altra cosa. Ideata e organizzata solo dalla Germania nazista, anche se l’antisemitismo esisteva certamente anche altrove. E sono convinto che accadde in Germania per colpa di Hitler. Senza di lui, non ci sarebbe stata la Shoah».
Ecco perché il concepimento e la nascita sono così importanti per lei. La Shoah come frutto diretto di Adolf Hitler.
«Fu lui ad avere l’idea, il nazismo si fonda sulla discriminazione razziale, certo, ma non c’è l’idea che si debbano sterminare tutti gli ebrei. Quella è una fissazione di Hitler».
Gli storici si sono a lungo scontrati sulle due visioni: una che privilegia la responsabilità personale del fondatore del nazismo e l’altra che sottolinea le cause profonde, politiche e sociali, che portarono la Germania e il mondo nell’abisso. Lei sembra propendere per la prima tesi, quella di Hitler come una specie di demonio.
«Sono convinto che se la gravidanza di Klara non fosse andata a buon fine, non sarebbe nato un altro dittatore destinato a fare le stesse cose. Non credo che la società tedesca fosse obbligata per forza a quello sbocco, come non mi ha mai convinto la teoria del Trattato di Versailles troppo umiliante per la Germania. In Russia fu diverso».
In che cosa era diversa la Russia?
«Il comunismo è stato un sistema più radicato e profondo, Lenin sarebbe stato come Stalin, se non peggiore, e al posto di entrambi sarebbe comunque andato al potere un altro tiranno. In Germania il peso della figura personale di Hitler è enorme, senza paragone. Questo libro nasce dall’idea che il nazismo e quindi il XX secolo si fondano su un’unica persona. Per questo quella di Klara è la gravidanza più carica di conseguenze della storia contemporanea, perché porta in grembo un bambino e allo stesso tempo anche il XX secolo. Senza Hitler e quindi senza la Shoah tutto sarebbe cambiato».
Una visione che assolve almeno in parte la società.
«Per carità, Hitler trovò terreno fertile e molte condizioni favorevoli per attuare il suo piano. Ma resto convinto che la dimensione individuale sia stata decisiva».
Una società che lei descrive in modi terribili, peraltro. Aloïs, il padre di Hitler, è una figura orrenda: violento, misogino, crudele, antisemita, e la madre Klara è tanto sottomessa da ammirarlo, il che non depone certo a suo favore.
«È così, ma non dobbiamo guardare a quei tempi con la griglia di valori di oggi. Il concetto stesso di misoginia non esisteva, trattare le donne in quel modo atroce era assolutamente normale e banale. Non era una caratteristica solo di Aloïs, anche il curato è terribile».
Ha fatto molte ricerche storiche?
«Molte, sì. Ho studiato tutto quel che è stato scritto, ho visitato i campi di concentramento. Quanto al resto, ho fatto il mio lavoro di romanziere. Come un’immagine poco definita, dai contorni sfuocati, può essere ricostruita e precisata dal computer, io ho cercato di aggiungere dettagli e informazioni rispettando il quadro di fondo. È il metodo Gustave Flaubert, da lui usato per Salammbô. Non essendoci documenti su Cartagine, ha integrato con la sua immaginazione, ma seguendo questo criterio: “Ogni volta che dico qualcosa, non voglio che qualcuno possa provarmi il contrario”».
Nel suo romanzo il nome Adolf Hitler non compare mai.
«Ci ho provato in una prima versione ma aveva l’effetto di una bomba, distruggeva tutto, anche nel libro».
Dieci anni fa lei ha scritto «Claustria» sulla storia di Josef Fritzl, l’ingegnere austriaco che tenne prigioniera e violentò la figlia per 24 anni nella cantina di casa. All’epoca lei ebbe non pochi problemi in Austria. Come pensa che verrà accolto «1889»?
«Al telegiornale mostravano le immagini di me che chiedevo informazioni piuttosto che di Fritzl, sembrava che il colpevole fossi io. Non so come verrà accolto 1889, in generale mi pare che agli austriaci non piaccia molto che gli stranieri si occupino delle loro faccende».
Nella vita della famiglia Hitler raccontata nel suo romanzo c’è l’ossessione per l’igiene.
«La paura della tubercolosi e delle altre malattie è ovunque, si pensa che pulire continuamente la casa uccida i microbi. È un’ossessione di purificazione e pulizia che poi in Hitler genera l’idea che gli ebrei vadano sterminati. Non basta espellerli, allontanarli, occorre eliminarli tutti affinché non si riproducano, bambini compresi. Come quegli ordini abbiano potuto essere eseguiti, è il mistero dell’animo umano. Non era così impossibile disubbidire. Bastava chiedere di andare al fronte, per esempio, ma ben pochi lo hanno fatto».