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 2023  gennaio 21 Sabato calendario

I cent’anni di Guido Strazza


Per i suoi cento anni, compiuti in dicembre, sua moglie Inne ha preparato una bella torta. Gli amici dell’Istituto della grafica, dove si svolge una sua mostra, lo hanno festeggiato. E Guido Strazza, che ha conosciuto Marinetti ed è stato amico di Lucio Fontana, sembra indifferente alle prevedibili dinamiche celebrative. È come se quel secolo che ha trascorso gli avesse forgiato uno scudo che lo difende dalle eccessive lusinghe. Dopotutto essere centenari, per giunta arrivarci in ottime condizioni, non è da tutti. Ma siamo un paese per vecchi, Guido Strazza lo sa. È un uomo dolce con chi non conosce; paziente, lo è stato con i suoi allievi. Non ha inseguito glorie effimere. Nella vita ha sempre, o quasi, fatto quello che era per lui giusto fare. Mi guarda con occhietti affilati, in una testa aristocratica; siede elegante e rilassato nella poltrona più comoda e mi dice di sentirsi come quelle case costruite tanto tempo fa. Solide, con buone fondamenta e un tetto che metteva al riparo dalle intemperie. Dopotutto, nella vita, Guido Strazza è stato anche ingegnere.
Progettare edifici cosa ti ha insegnato?
«Concretezza e solidità. Ma non mi bastava. Volevo un paio d’ali per guardare il mondo dall’alto».
Sei stato pilota di aerei.
«Questo in un’altra epoca».
Ti ricordi l’anno?
«Forse il 1940 o il 1941. Presi il brevetto all’aeroporto Littorio, oggi credo si chiami dell’Urbe, a Roma».
Volevi volare perché?
«Per staccarmi da terra. Portavo un biplano di cui non ricordo il nome. Poi andai volontario in guerra. Mi spedirono al primo stormo caccia di Gorizia. C’era una base militare. Feci le esercitazioni, ma arrivò l’armistizio e con esso finì la mia avventura aviatoria.
Fu soltanto dopo che mi iscrissi a ingegneria. Studiavo e dipingevo».
In che proporzione?
«Lezioni la mattina. Ricordo quelle di Edoardo Amaldi che, oltre ai corsi di Fisica sperimentale, ne tenne uno di matematica per noi ingegneri. E poi il pomeriggio mi dedicavo alla pittura. Già da bambino disegnavo quello che vedevo: un bicchiere, una sedia, la vista oltre la finestra. Non c’era nessuna intenzione artistica. Ero attratto dalla realtà e mi piaceva fissarla in qualche dettaglio».
Dove vivevi?
«In quel periodo ero a Genova. Sono nato per caso a Santa Fiora sul monte Amiata. Mamma sarda e papà milanese. Ho trascorso lì la mia infanzia».
Sei nato l’anno della marcia su Roma.
«Non me ne farei una colpa. In quegli anni quasi tutti erano fascisti, come dopo la guerra tutti o quasi tutti saranno antifascisti. Mio padre, per dirti, fu un fascista della prima ora. Faceva il giornalista. Ci mise un po’ per capire che quello era un regime illiberale».
Com’erano i rapporti tra di voi?
«Il suo atteggiamento marziale confliggeva con la mia vocazione all’indisciplina. Scappavo da scuola per andare al porto a vedere le navi partire. Per raddrizzarmi pensò bene di avviarmi alla carriera militare. Mi spedì alla scuola navale di Livornoconvinto di fare di me un uomo. Fui espulso».
Volevi fare l’artista.
«Era un progetto solamente abbozzato. Sentivo che l’irrequietezza corrispondeva a un certo bisogno di creatività. Fu l’incontro con Filippo Tommaso Marinetti a dare forma a questa creatività».
Come incontrasti il padre del futurismo?
«Era l’inizio degli anni Quaranta. Andai a sentire una sua conferenza. Alla fine lo avvicinai e gli chiesi se potevo mostrargli certi miei lavori di aeropittura».
Eri già futurista?
«Mi piacevano Boccioni e Balla. Ma l’aeropittura era come un modo di dipingere dall’alto. Una trasposizione del volo di un pilota. Marinetti si incuriosì. Avevo neanche vent’anni. Mi disse di andare a trovarlo a casa. Abitava in piazza Adriana. Arrivai con la mia cartella e restò colpito da certi fogli. Dal dinamismo e dalla forza di certe immagini. Decretò che avrebbe portato un paio dei miei lavori alla Biennale di Venezia che stava organizzando. E così fece. Fu il mio battesimo».
Non hai potuto conoscere Boccioni perché morì prima che tu nascessi. Ma Balla?
«Mai incrociato. Anche se so che viveva a Roma. Loro hanno rappresentato la grande svolta della pittura contemporanea in Italia».
Che intendi per svolta?
«Pensa al concetto di linea che soprattutto con Boccioni perde la sua staticità e sembra una freccia scagliata nello spazio. Ma pensa anche agli studi sul movimento di Balla. È come se la pittura improvvisamente uscisse dal cimitero della tradizione e occupasse l’intero territorio del nuovo».
Cosa pensi di De Chirico?
«Grande pittore, ma basta?».
Che vuoi di più?
«Qualcosa che vada al di là del piacere. De Chirico mi piaceva, ma raccontava un mondo per me lontano. Era innovativo, a suo modo. Ma distante da me. Sosteneva l’insensata bellezza della materia. Amava l’immobilità della metafisica. Mentre io ho amato Kandinskij che ha fatto vivere il segno e la forma in sé».
Che rapporto hai con la grande arte italiana?
«Sono attratto dal Medioevo, al cui culmine metto Giotto, il mio idolo. In lui la figurazione era ancora segnica. Quando nel Rinascimento la rappresentazione diviene perfetta, è come se il segno venisse rivestito di realtà. La bellezza si fa orpello».
La tua attrazione per il segno come nasce?
«È la sua forza sorgiva che mi attrae, il fatto di non rinviare ad altro da sé. Feci un’esperienza sconvolgente visitando le grotte dei Balzi Rossi. Lì furono scoperte delle pitture rupestri. Vidi quei segni incisi, come fossero dei tagli. Erano probabilmente i primi abbozzi di figure animali, ma talmente rarefatti da sembrarmi scaraventati nel contemporaneo».
Le grotte dei Balzi Rossi sono in Liguria.
Sì quasi al confine, tra Bordighera e Ventimiglia. Tra l’altro è lì che conobbi Ille. Ti faccio vedere una foto, siamo noi due su un muretto a secco con sullo sfondo Mentone, oltre il confine. La vidi e mi innamorai di questa giovane olandese, cantante, esperta di musica antica. Era il 1958. Allora vivevo a Milano e prima ancora avevo passato un periodo a Venezia».
Hai conosciuto Emilio Vedova?
«Come facevo a non incontrarlo, era un pezzo della città, come il campanile di San Marco. Ci conoscemmo mi pare alla galleria del Cavallino, molto frequentata allora da Peggy Guggenheim che comprò alcuni dei miei lavori. Con Vedova ci frequentavamo e ritengo che il suo lavoro mi abbia influenzato. Il rapporto tra gesto e segno in lui era straordinario. Il fare che simette insieme al fatto. Ma era abbagliato dall’egocentrismo. Quella barba da santone incuteva rispetto e timore. Ricordo che una delle conversazioni ricorrenti era sul Brasile, dove aveva trascorso alcuni mesi. Io in Sud America c’ero stato per anni».
Su questo ti chiedo tra un attimo. Ma so che nel tuo periodo milanese frequentavi Lucio Fontana.
«Beh, la prima volta che entrai nel suo studio vidi una parete piena di segni. Tele tagliate! Che roba è? Mi sembravano delle forzature. Un segno senza rimedio.
Una volta fatto non potevi tornare indietro. Niente ripensamenti. Ero sconcertato».
Da cosa esattamente?
«Non lo so. Cos’era quel taglio: l’origine della vita, la violenza di un dolore antico, una ferita mentale? E poi ho capito l’eroismo che si cela dietro quel gesto, in quell’azione a senso unico. Ho capito che questo cordialissimo e inappuntabile argentino, dalle scarpe sempre perfette, sempre lucide, sempre all’ultima moda, era l’ultimo grande erede del futurismo. Ma tu volevi sapere del mio periodo sudamericano, no?».
So che a un certo punto partisti per il Perù.
«Dovevo decidere se fare l’ingegnere a tempo pieno oppure dedicarmi interamente alla pittura. Preparai una cartella dei dipinti più belli e mi imbarcai per il Perù. Non era una scelta romantica. Mi sentivo forte del mio lavoro e sicuro che qualcuno dall’altra partedell’oceano lo avrebbe apprezzato».
Scusa, ma perché non sei andato negli Stati Uniti?
L’arte era lì.
«Non ero interessato al mercato. Mi piaceva l’idea che un luogo in qualche modo estremo potesse rappresentare il mio mondo. Oltretutto fu mio padre tornato appunto dal Perù a farmi dei racconti favolosi. Ero saturo di Italia, di Europa e partii. Il viaggio in nave duro circa un mese. Ebbi il tempo di imparare i primi rudimenti di spagnolo. Leggevo Garcia Lorca. Mi sentivo un po’ come Gauguin a Tahiti».
Cos’era, un addio alla tua parte occidentale?
«Era un mondo ancora arcaico quello a cui andavo incontro. C’erano le prime impronte della modernizzazione. Ma la gran parte del paese – le sierre, l’Amazzonia, le Ande, i villaggi di indios, gente amorosa e triste – sembrava esistere fuori dal tempo. E quando giunsi a Lima ero convinto che avrei continuato a fare l’artista».
Invece?
«Quasi nessuno mi sembrò interessato alla mia opera.
Capii che era stato folle gettarsi in quella impresa. Non avevo soldi e non riuscivo a campare con la pittura.
Ebbi la fortuna di conoscere un italiano che laggiù aveva fatto fortuna, era proprietario di un vastissimo latifondo. Mi ingaggiò per fare rilievi topografici. A dorso d’asino e fornito di teodolite, un cannocchialespeciale, cominciai a misurare quel territorio. Fu la mia salvezza economica. Ero accompagnato da un indigeno che preparava da mangiare. Si prendeva cura di me. E la cosa bella fu che mi resi improvvisamente conto che quella terra aveva qualcosa di speciale».
Cioè?
«Sentivo che concetti come distanza e tempo lì assumevano un significato completamente diverso. Era come se la mia esistenza si aprisse a un nuovo orizzonte che mai prima avevo percepito».
Quanto sei rimasto in quei luoghi?
«All’incirca cinque anni. Con i soldi che guadagnavo giravo il paese. Poi rientrato a Lima affittai uno studio dedicandomi alla pittura».
Ma c’era una vita artistica?
«Sì, ero diventato amico dello scultore Joaquìn Roca Rey, di Jorge Piqueras, pittore, scultore, fotografo.
Fondai, insieme ad artisti e architetti peruviani, la rivista “Agrupación Espacio”. Ero molto dentro al dibattito e quando a San Paolo del Brasile fu allestita la prima Biennale d’Arte partecipai come rappresentante dell’arte peruviana contemporanea».
Ti eri totalmente integrato.
«Solo in parte, tanto è vero che proprio a San Paolo compresi che il centro del dibattito artistico era l’Europa. Potevo considerare finita la mia esperienza sudamericana. Tornai in Italia. Era il settembre del1954 e mi stabilii a Venezia».
Oltre alla pittura hai svolto un ruolo fondamentale nell’arte dell’incisione. Come è nata questa tua passione?
«Grazie all’incontro con Fayga Ostrower. Nel suo studio a Rio de Janeiro ho visto le prime incisioni e me ne innamorai. A quel tempo, parlo della fine degli anni Cinquanta, Maurizio Calvesi dirigeva l’Istituto di Calcografia Nazionale, ed ebbe l’idea di ricavare all’ultimo piano dell’edificio un spazio da mettere a disposizione di alcuni artisti. Cominciai così ad occuparmi di incisioni, oltretutto nella calcografia c’era una parte dell’archivio vaticano dedicato alle incisioni e fu lì che in modo serio entrai in contatto con il lavoro di Piranesi. Ancora adesso mi capita di guardare con una certa nostalgia gli strumenti con i quali lavoravo. Ma da un anno non vado più nel mio studio».
Ti manca quel tipo di quotidianità?
«No, credo di essere diventato abbastanza saggio. E so che c’è sempre un tempo in cui le cose si fanno e un tempo in cui non si fanno più. Mi preparo a un altro tempo, come ci si prepara all’ora prossima e non ai prossimi anni. Ho sempre pensato che il segno chiama il segno, la parola chiama la parola e il tempo chiama il tempo».