Robinson, 21 gennaio 2023
Il viaggio di Shlomo
Eravamo agli inizi degli anni ’ 90. Giovani neofascisti avevano imbrattato muri e porte nel ghetto di Roma con scritte antisemite, disegnando anche Magen David di triste memoria, come nella Germania nazista. La Rai realizzò un servizio sull’accaduto, proponendo anche i commenti dei sopravvissuti ad Auschwitz che si erano dati appuntamento al Portico d’Ottavia, il cuore dell’antico ghetto, per esprimere il loro sdegno per quel che era successo. Io ero incollato al televisore ad ascoltare le voci dei sopravvissuti, che conoscevo già, ma, a un certo punto, ecco comparire sul video un uomo distinto, dall’aspetto gradevole, che però non sorrideva mai. Era “Bruno” Venezia, in realtà “Shlomo”, non l’avevo mai sentito nominare. Forse perché non compariva nell’elenco dei deportati dall’Italia: durante il periodo dell’oppressione nazi-fascista era infatti residente in Grecia, a Salonicco, ed era stato arrestato ad Atene. Ma era italiano, così come tutta la sua famiglia. Alla domanda del giornalista «E lei ad Auschwitz cosa faceva?» la risposta, secca, fu: «Ero nel Sonderkommando!».«Cos’era?».«Lavoravamo nei crematori, tra le camere a gas e i forni, dovevamo occuparci dello smaltimento dei cadaveri». Il giornalista si limitò a dire: «Bene, questo signore lavorava nei crematori» e passò velocemente la parola a un altro testimone. Feci un balzo dalla sedia: quel cronista non aveva compreso la situazione, ma soprattutto non aveva capito di trovarsi davanti a un personaggio che aveva rivestito un ruolo di primaria importanza nella storia di Auschwitz. Poco tempo dopo ero da lui, e subito mi resi conto di essere a contatto con “La Storia”, non con un semplice testimone. Da quel momento, per molti aspetti, la vita di entrambi non sarebbe stata più la stessa. Un “Sonderkommando”, per di più italiano!
Ad Auschwitz- Birkenau, fin dall’inizio dello sterminio sistematico della popolazione ebraica dell’Europa occidentale e del Sud, i nazisti avevano obbligato gli stessi ebrei, generalmente giovani e forti, a effettuare quello che veniva chiamato lo “sporco lavoro”, ovvero tutte le operazioni legate all’uccisione col gas degli ebrei deportati e alla liquidazione dei loro cadaveri. Tutte le operazioni, tranne, però, quella di “dare” concretamente la morte, di uccidere. Ciò era riservato ai soli nazisti. La vita media di questi giovani era brevissima: tranne alcuni “specialisti”, ritenuti indispensabili al funzionamento della macchina di sterminio, essi venivano periodicamente eliminati. Tuttavia, nel 1944, a causa del numero altissimo di convogli inviati ad Auschwitz, essi vennero tenuti in vita per diversi mesi, fino al 7 ottobre, quando scatenarono un’eroica rivolta che mise fuori uso un intero crematorio. Per loro fu la fine: di circa 900 persone rimasero in vita meno di 100, momentaneamente risparmiate per occuparsi degli ultimi convogli e per smantellare le installazioni omicide. Alcuni di questi sopravvissero alla guerra, ma cosa si sapeva di loro? Molto poco, e in Italia nulla. Tutti gli storici, però, sapevano che essi rappresentavano una “fonte” assolutamente necessaria per ricostruire il meccanismo di distruzione dell’ebraismo europeo. Tre di essi avevano rilasciato la loro preziosa testimonianza – quasi inaccessibile – subito dopo la guerra, in processi tenuti a Varsavia e a Cracovia, e negli anni ’ 60 altri tre a Francoforte. Esistevano dei manoscritti nascosti sotto terra, nei pressi dei crematori, e che erano stati, in parte, ritrovati, ma questo materiale era scarsamente conosciuto anche dagli storici (sarebbero stati tradotti in francese solo nel 1977). Ma soprattutto i vecchi componenti del Sonderkommando non comparivano mai in pubblico. Il solo volto conosciuto era quello di Filip Müller, portato sugli schermi da Claude Lanzmann nel suo monumentale film, Shoah. Questo silenzio, quasi totale, era causato dal fatto che la società europea, ma anche quella israeliana, considerava questi uomini quasi dei “collaborazionisti”, come se avessero “partecipato”, in qualche misura, alle pratiche di annientamento naziste (si pensi, per esempio, al giudizio, in questo caso del tutto scorretto, di Primo Levi, che li aveva definiti i “corvi neri” dei crematori).
Ora, durante il primo incontro con Shlomo, io ero certo di trovarmi di fronte a un testimone di immenso valore, tuttavia, lui non sapeva chi aveva davanti. I primi incontri furono molto complicati: era lui a interrogare me. Quando pensò che possedevo le conoscenze necessarie per affrontare le vicende del Sonderkommando, allora decidemmo di procedere con una vera intervista, addirittura filmata. Fu un incontro intenso, senza sosta. Lui era un diluvio di informazioni. Da subito fu chiara quale fosse la sua più grande dote: si limitava a descrivere solo ciò di cui era stato testimone diretto. Non una parola su ciò che non aveva visto con i suoi occhi. Nessun commento, solo fatti esposti con impressionante precisione. Nessuna reticenza, nemmeno di fronte alle domande più imbarazzanti. Quel giorno nacque un’intesa che sarebbe durata fino alla fine della sua vita, e che ci avrebbe portato ad effettuare insieme 57 viaggi solo ad Auschwitz (era lui che teneva il conto).
Shlomo era nato il 29 dicembre 1923 a Salonicco, ed era un italiano residente all’estero, come tutti i componenti della sua famiglia; la madre Dudun, il fratello Maurice, le sorelle Rachel, Marika e Marta. Il padre, Isacco, era morto giovanissimo. Shlomo fin da adolescente dovette darsi da fare per aiutare la madre a mantenere tutto il gruppo familiare, arrivando a fare mercato nero con i soldati tedeschi che avevano occupato la città. È in quel periodo che si rese conto di possedere due preziose qualità: quella di apprendere facilmente le lingue – ne conosceva bene già tre: l’italiano, il ladino e il greco, ora parlava anche in tedesco, e ciò sarebbe risultato fondamentale per la sua sopravvivenza ad Auschwitz – e quella di capire sempre prima degli altri cosa sarebbe successo nelle situazioni più complicate e difficili; intuiva sempre cosa poteva o non poteva fare e di chi potersi fidare. Nel 1943 la famiglia Venezia, essendo di nazionalità italiana, evitò di essere rinchiusa nel ghetto istituito dai nazisti in città e la successiva deportazione ad Auschwitz, ma in luglio Shlomo capì che la situazione stava diventando estremamente pericolosa anche per loro, quindi, grazie all’aiuto del Consolato italiano, si rifugiò, con altre famiglie, ad Atene. Nella capitale lui e il fratello entrarono nella resistenza compiendo sabotaggi e aiutando soldati italiani a nascondersi presso famiglie greche, ma alla fine di marzo del 1944 furono arrestati e imprigionati nel carcere di Haidari. Con tutta la sua famiglia fu deportato ad Auschwitz-Birkenau, dove arrivò dopo undici giorni di viaggio. Lui e altri giovani tentarono di fuggire dal treno, ma le implorazioni degli “anziani”, la presenza delle sorelline e la paura di rappresaglie bloccarono questo disperato tentativo.Giunti a destinazione, sulla Judenrampe, nel corso della “selezione” iniziale compiuta da Mengele, la mamma e le sorelline Marika e Marta furono inviate immediatamente alle camere a gas; lui, il fratello Morris e la sorella Rachel vennero inseriti nel campo. Dopo un breve periodo di quarantena, Shlomo e il fratello furono scelti per far parte del tristemente famoso “Sonderkommando”. «Siamo stati scelti in una ottantina, tra cui mio fratello e due miei cugini». Immediatamente Shlomo comprese che non ci sarebbe stata più via d’uscita. Era finita. Mai, in nessun momento, né lui, né nessun altro del Sonderkommando pensarono di poter uscire da quell’inferno. E incominciò a prender confidenza con la morte, senza però rinunciare alla sua naturale umanità e al suo senso del dovere: non si limitò, quindi, a tagliare i capelli alle donne uccise, ma, per dividere con i compagni di sventura l’insopportabile fatica di eseguire le diverse mansioni da svolgere, aiutò i compagni ad accompagnare i deportati fino alla porta della camera a gas, cercando di proteggerli dalle botte che i nazisti davano facilmente perché tutto procedesse velocemente, a sollevare i tappi di cemento sulle aperture sopra il solaio delle camere a gas, dove i tedeschi immettevano i cristalli di Zyklon B (imbevuti di acido cianidrico); a estrarre i cadaveri delle persone asfissiate, il compito più terribile; a comporre e bagnare i cadaveri prima della cremazione e poi infilarli nei forni; a sminuzzare e setacciare le parti delle ossa ancora intatte dopo la cremazione. Shlomo riuscì a salvarsi grazie alla fortuna, ma anche, e ancora, alla sua capacità di intuire quel che sarebbe successo. Il giorno prima della rivolta, avvenuta il 7 ottobre del 1944, convinse il suo Kapo, Lemke, a far trasferire il fratello e due cugini dal Krematorium IV, dove lavoravano, al II, dove si trovava lui, pensando che lì si rischiasse di meno, oltre al fatto che, in ogni caso, avrebbe voluto morire insieme a loro. Mai scelta fu più azzardata e fortunata: furono tra i pochi a rimanere in vita, meno di 100 su 900. E anche il 17 gennaio del 1945, quando iniziò la marcia di evacuazione del complesso di Auschwitz, fu ancora Shlomo a decidere quando e come cercare di “camuffarsi” da “normale” prigioniero del campo, abbattendo la porta del blocco in cui i nazisti avevano rinchiuso gli ex membri del Sonderkommando ancora in vita, indispensabili per lo smantellamento delle strutture omicide.
Shlomo era stato tutto questo, ma, dopo la liberazione, avvenuta a Ebensee, il sottocampo di Mauthausen dov’era finito e in cui aveva perso un polmone, mangiato dalla Tbc, alla sua esperienza aveva riservato un silenzio quasi “sacro”. Nemmeno gli altri deportati sopravvissuti, a Roma, città dove Shlomo viveva da anni, conoscevano la sua storia; oltre tutto questi credevano che non fosse rimasto in vita nemmeno un membro del Sonderkommando, di cui parlavano raramente, e solo con timore reverenziale. Ma proprio in quegli anni la società italiana si stava svegliando, incominciava a sentire il bisogno di informarsi, di conoscere, di capire come fosse stata possibile la deportazione, e poi la fine atroce di una parte importante di sé, nel modo più preciso possibile, senza reticenze.
Il mondo della scuola per primo rappresentò la forza propulsiva di questo sforzo. Ora, pensando al fatto che gli insegnanti avrebbero trovato grandi difficoltà a ricostruire quel che era successo senza le informazioni che solo i componenti del Sonderkommando avrebbero potuto dare (e ciò avrebbe rappresentato un indebito vantaggio per chi banalizzava, o addirittura negava quanto accaduto), chiesi a Shlomo di fare uno sforzo enorme, tornare più volte a Birkenau con due compiti: innanzitutto rilasciare la sua preziosa testimonianza – all’interno di un progetto attivato con la collega del CDEC di Milano, Liliana Picciotto – e tenere corsi di aggiornamento per gli insegnanti di storia. Con grande fatica, ma con un altissimo senso del dovere, da allora egli contribuì a formare ogni anno centinaia di insegnanti, innanzitutto italiani, ma anche francesi, svizzeri, tedeschi, spagnoli e israeliani. Questo lavoro non si limitò però solo al mondo della scuola, ma toccò altre categorie di persone, come quella delle guide dei luoghi della Memoria, a partire da quelle del Museo di Auschwitz; delle scuole di giornalismo, in particolare francesi, delle organizzazioni ebraiche, delle associazioni cattoliche, delle scuole di partito (in Francia); abbiamo raggiunto persino alcune commissioni episcopali. Splendido il rapporto che si instaurò con il cardinale Lustiger – tra l’altro ebreo di nascita —, il quale, sorretto da Shlomo, recitò il Kaddish nel luogo dove i nazisti avevano attivato la prima camera a gas di Birkenau e dove mamma e sorella erano state uccise. Diversi alti esponenti politici appresero dalla sua voce, sul luogo, le modalità della tragedia della «soluzione finale della questione ebraica».
In ogni occasione Shlomo ha testimoniato mantenendo fede al principio della sola aderenza ai fatti sperimentati di persona, sempre mantenendo una sobrietà assoluta nell’esposizione. Mai una concessione alla facile emozione o alla spettacolarizzazione, spesso richiesta dal mondo dei media. Eppure è stato consulente di diversi prodotti televisivi e cinematografici, si pensi solo a La vita è bella, sul cui set ha raccontato a Roberto Benigni il procedimento della messa a morte all’interno dei crematori. Estremamente umano e professionale il rapporto con il regista Ruggero Gabbai, con il quale abbiamo realizzato diverse opere. Nel 2000 la sua preziosa collaborazione è stata indispensabile per elaborare la ricostruzione dei crematori nell’opera multimediale
Destinazione Auschwitz.
Grazie a lui, si è arrivati alla visualizzazione del crematorio II di Birkenau, premiata dall’Unione europea con l’“Innovation Price 2000”. Per Shlomo questo progetto ha rappresentato una sofferenza mai provata nel dopoguerra: è rimasto 17 giorni sui resti delle strutture di sterminio analizzando e spiegando il valore di ogni pietra rimasta, confrontando i suoi ricordi con la documentazione da poco ritrovata della Topf und Söhne, la ditta che aveva costruito i crematori di Birkenau. «Dopo questo viaggio, ci vorranno parecchie settimane, per non dire mesi, prima di tornare alla normalità, se esiste una normalità…». Dagli inizi del nuovo secolo si intensificarono i “viaggi della memoria”, principalmente delle scuole italiane, ma anche di organizzazioni di diverso tipo, come, nel 2004, il primo incontro ad Auschwitz tra rappresentanti del mondo cattolico, ebraico e musulmano (docenti universitari palestinesi, capi religiosi islamici di Francia e Belgio, arabi d’Israele), organizzato dal prete melchita Shoufani – arabo, fede cattolica, domicilio in Israele —. Guidate dalla testimonianza di Shlomo, per tre giorni e tre notti la delegazione palestinese e quella ebraica accettarono di confrontarsi e di conoscersi attraverso lo specchio della Shoah, della sofferenza.
Negli ultimi anni, ogni viaggio, ogni conferenza, ogni incontro vide poi la presenza della sua amata moglie, Marika Kaufmann, la donna che lo tenne per mano per tutta la vita. Furono molto vicini a Shlomo anche i tre figli, Mario, Alessandro e Alberto, e i nipoti, la sua “ancora di salvezza”. Nel 2007 la Francia vide l’uscita del suo libro
Sonderkommando Auschwitz, che, tradotto in 25 lingue, sul tema sarebbe diventato un punto di riferimento per tutti, studiosi e non. Fino alla fine non smise di testimoniare: le ultime immagini sono quelle di lui, a Birkenau, sulla carrozzella con, a fianco, la bomboletta di ossigeno. Senza un lamento, quasi fosse, ancora una volta, tutto normale. Shlomo Venezia, un “Mensch” che ha lasciato un segno indelebile in tutte le persone che sono venute a contatto con lui.