Tuttolibri, 21 gennaio 2023
Gadda in trincea
Nel laboratorio di Gadda tutto è mobile, transitorio. Sono fluttuanti gli indici, gli schemi di lavoro, i progetti, e mutevoli i testi che ne derivano. I «disegni milanesi» dell’Adalgisa nascono dal fallimento di un romanzo, Un fulmine sul 220, e del Pasticciaccio ci restano due versioni così diverse – quella uscita a puntate su «Letteratura» nel 1946 e quella pubblicata da Garzanti nel 1957 da far pensare a un radicale mutamento di direzione. Una simile instabilità presuppone un’audace sperimentazione, un impressionante lavoro sotterraneo, sacrificio del già fatto e di sé. Presuppone, per usare le parole di Gadda, una posizione «euristica» indirizzata cioè alla scoperta e un’idea della letteratura come strumento di conoscenza, ricerca della verità; e ovviamente una immane quantità di materiali preparatori, abbozzi, stesure, che venendo alla luce rendono effimere anche le edizioni che via via si pubblicano. Riproporre un’opera di Gadda non è mai un gesto meccanico: ci costringe a fare i conti con quanto si è scoperto nel frattempo, a ricominciare tutto da capo, a privilegiare, appunto, l’euresi, ad assumere sempre differenti angoli visuali.
Chi nel 1955 ha letto il Giornale di guerra e di prigionia pubblicato da Sansoni non deve aver dubitato che di quel diario rimanessero solo i tre quaderni lì riuniti: il Giornale di guerra per l’anno 1916, dove il sottotenente Gadda, del 5° Reggimento Alpini, viene trasferito sull’Altopiano di Asiago e sperimenta il fuoco nemico, le Note autobiografiche scritte a Cellelager fra il maggio e il novembre 1918 e la sezione dal misterioso titolo Vita notata. Storia (dicembre 1918-dicembre 1919), che include il ritorno alla libertà e alla vita civile. Era già molto. Quanto bastava per capire che la guerra, desiderata come «necessaria e santa», implica per Gadda anche un durissimo scontro con sé stesso, un lento processo di conoscenza della sua realtà psichica. Il nemico «atroce e cane» è l’ipersensibilità, una eccedente «capacità del sentire» che ottunde doti intellettuali, spirito di disciplina, preparazione tecnica, rendendolo insicuro e inetto al comando, ma che dilata invece la capacità di cogliere i vizi italici (e suscita un doloroso senso di inappartenenza: «Adesso, o Italiani di tutti i tempi e di tutti i luoghi adesso ditemi: appartengo io alla vostra razza?»). Condannandolo alla vergogna e all’inazione, la prigionia che segue Caporetto non fa poi che accentuare questa «nevrastenia mentale», tanto da insinuare in lui l’idea che nella Cognizione del dolore fonderà il personaggio di Gonzalo, «prova difettiva di natura» e «fallito sperimento» delle viscere materne. Varcato il Moncenisio, la sera del 13 gennaio 1919, Gadda rivede l’Italia, ma ciò che lo attende a Milano è la conferma di un destino di dolore: il fratello Enrico, il figlio «più caro, il più bello», è morto in un incidente aereo. Nulla sarà più come prima. Ed è nel segno di una sofferenza così acuta da corrodere persino i vincoli famigliari, l’unità fusionale che lo legava alla madre e alla sorella, che si conclude quanto Gadda nel 1955 ha scelto di far conoscere del suo diario di guerra e di prigionia.
Era molto, ma non era tutto. Quando Einaudi, dieci anni dopo, propone una nuova edizione curata da Gian Carlo Roscioni, un taccuino inedito, il Giornale di Campagna vol. I (agosto 1915-gennaio 1916), si aggiunge inaspettatamente ai già noti. Malgrado la censura cui un Gadda sempre più timoroso di fantomatiche rappresaglie sottopone il «famigerato mal-testo», il più ampio pubblico che il successo del Pasticciaccio (1957) e della Cognizione (1963) gli ha conquistato può ora condividere la sua feroce indignazione nei confronti dei pescecani che si arricchiscono alle spalle dell’esercito, dell’irresponsabile indifferenza del potere centrale, dell’incompetenza degli alti comandi, dell’indegnità morale dei vili e degli imboscati: «Io mi auguro che possano morir tisici o di fame, o che vedano i loro figli scannati a colpi di scure». Nasce qui l’invettiva gaddiana, che in Eros e Priapo sfiorerà un’inaudita violenza.
Nel 1992, nel pieno della tumultuosa seconda vita editoriale di Gadda (scomparso nel 1973), Dante Isella pubblica una magistrale edizione che restaura il testo originale del Giornale, integrandolo con il cosiddetto Taccuino di Caporetto (ottobre 1917-aprile 1918), già anticipato l’anno precedente in un volume autonomo. Riaffiora così il trauma della «tragica fine», che il taccuino registra sia in presa diretta sia nella forma di un memoriale scritto per uso personale, «in caso di accuse», nella sinistra fortezza di Rastatt, dove ai sensi di colpa del vinto si somma l’umiliazione del freddo e della fame, «insaziabile, serpentesca, cannibalesca». Ma il marchio della provvisorietà non risparmia neppure questa nobile tappa editoriale. La notizia, diffusa nel giugno 2019, che la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma ha acquisito dieci quaderni autografi messi all’asta da Finarte Auctions, sei dei quali inediti, non solo desta stupore, ma, per l’ennesima volta, dinamita l’immagine che ci eravamo formata.
Grazie alla nuova edizione di Paola Italia, che riproduce con ammirevole perizia filologica il testo di tutti gli autografi gaddiani sinora noti, la prigionia a Cellelager si impone in una luce del tutto diversa. Nei quaderni inediti (novembre-dicembre 1918), Gadda riflette sulla situazione della Germania dopo l’armistizio, intreccia, prendendo spunto dalle poesie di Ugo Betti e dal suo racconto La passeggiata autunnale, accanite discussioni sulla creazione letteraria, offre memorabili ritratti dei compagni di prigionia (come quello di Ottone Terzi). Soprattutto, decide di sdoppiare il suo diario «in due corsi paralleli»: nel primo, Vita notata. Storia, terrà memoria della sua vita «nel senso immediato della parola», nel secondo, Pensiero notato Espressione, registrerà «percezioni, intuizioni, invenzioni, concetti, giudizî». Una vera rivoluzione, intesa a trasformare il Giornale in una cava di prestito, in un laboratorio letterario ormai aperto al futuro. —