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 2023  gennaio 21 Sabato calendario

In chiesa con James McBride

Si collega dal basement della New Brown Memorial Baptist Church di Red Hook, Brooklyn, una specie di sgabuzzino con la boiserie color legno, di quelle che andavano forte nelle tavernette nostrane degli anni Ottanta, dove mentre noi due parliamo continuano a entrare e uscire persone indaffaratissime. «Non mi ero reso conto di aver fissato l’intervista di domenica all’ora della messa! L’organista era in ritardo così mi sono messo a suonare l’organo. Per fortuna è arrivata, perché è molto più brava di me». James McBride, 65 anni, elegante in completo nero e cravatta, è romanziere vincitore di un National Book Award (nel 2013, per The Good Lord Bird), sceneggiatore (ha scritto quella di Miracolo a Sant’Anna, il lungometraggio del 2008 diretto da Spike Lee sulle vicende di un gruppo di soldati afroamericani rimasti bloccati sulle colline lucchesi nel 1944) e musicista (suona il sassofono tenore). Cresciuto nella chiesa fondata dai genitori, un reverendo battista nero e una polacca ebrea convertita al cristianesimo, McBride non ha mai abbandonato né la Chiesa né la religione, che sono le cose di cui non smetterebbe mai di parlare. Non è un caso che il suo ultimo romanzo, Il diacono King Kong, ruoti attorno alla figura di un anziano diacono, Sportcoat, e che l’intera storia sia pervasa da un tormentone: «Che cosa fa, per davvero, un diacono?».
Che cosa fa, dunque?
«E chi lo sa? Se fosse nell’esercito, sarebbe un tenente o un sergente. Fondamentalmente, fa tutte quelle cose che il pastore non può o non vuole fare. A volte si occupa dei soldi, a volte delle riparazioni, a volte non fa nulla. Ne ho conosciuti tanti e sono perfetti per raccontare che cosa sia una chiesa nera. Di solito sono vecchi uomini molto divertenti e con cose interessanti da dire. In una chiesa, su dieci persone, ce ne sono due che fanno tutto, mentre le altre otto non fanno nulla: si presentano alla domenica vestite di tutto punto, dicono “sia lode al Signore” e se ne tornano a casa».
Lei fa parte dei due o degli otto?
«Sono più vicino ai due: se mi viene chiesto di fare qualcosa la faccio, perché in questa Chiesa mi sento amato a prescindere. Mi amavano prima che diventassi uno scrittore famoso, e mi amano ora. Il senso di spiritualità è l’unica cosa che, nella vita, mi ha aiutato, anche nel lavoro. E ha aiutato moltissime persone di colore».
Dedica il romanzo “Al popolo di Dio. Tutti quanti”.
«La Chiesa è quel luogo in cui puoi lasciarti alle spalle i problemi, dove trovi amici che diventano una famiglia e dove sei amato incondizionatamente, che tu sia ricco o povero, nero o bianco, non importa. Nella nostra comunità, la Chiesa nera è sempre stata un luogo di rifugio, ma anche un luogo dove ci si diverte molto, con persone interessanti che fanno cose folli. E poi ovvio, c’è di tutto: chi beve troppo, chi è astemio, chi fa l’agente di polizia, chi il pompiere, chi fa pettegolezzi, chi è un lussurioso… Io credo che la New Brown Memorial Baptist Church sia una piccola chiesa benedetta. A proposito, la porto a vedere una cosa bellissima».
Esce dal basement e ci ritroviamo nel piccolo cortile della chiesa dove McBride inquadra un murale raffigurante un Gesù nero con le braccia spalancate e le mani rivolte verso l’alto.
«Lo ha fatto un membro della comunità con una bomboletta di vernice spray. Vede, ho scritto Il diacono King Kong per raccontare di un mondo che è stato importante per la vita americana e che purtroppo sta scomparendo. Volevo che la gente sapesse com’era. Quando sono stato in Italia per documentarmi su Miracolo a Sant’Anna, anche lì ho incontrato persone molto spirituali. È vero, la Chiesa cattolica ha molti problemi, ma mi ha sempre colpito il senso di spiritualità e di fiducia che hanno i credenti italiani, mi hanno ricordato la mia gente».
Anche qui le cose sono cambiate, la gente non va più in Chiesa come una volta.
«La gente va su internet, su Tiktok. Ma le risposte non si trovano in un computer».
In Miracolo a Sant’Anna, la resistenza partigiana ha un ruolo molto importante. Che cosa l’aveva affascinata di quel momento storico?
«Mio zio, che aveva combattuto in Italia, mi diceva sempre che lì i neri erano trattati come dei re. I partigiani erano stati gentilissimi con loro, non l’ha mai dimenticato. Ho sempre pensato che la storia di quelle donne e quegli uomini che avevano combattuto per la libertà avesse molto da insegnare al mondo».
Perché ha ambientato “Il diacono King Kong” nel 1969? Lei aveva 12 anni…
«Il movimento per i diritti civili stava iniziando la sua lunga discesa, che coincise poi con l’inizio del movimento hippie. Martin Luther King era stato ucciso l’anno prima, Malcolm X nel ’65, John Coltrane era morto nel ’67. Ho pensato che fosse un momento cruciale da raccontare, un anno di cambiamento».
Che cosa le manca di più della Red Hook di quegli anni?
«Il senso della famiglia che c’era. Le famiglie intatte, non ancora distrutte dalla droga. Oggi tra i latini e i cinesi, i nuovi residenti con i quali andiamo molto d’accordo, quel senso è ancora forte, ma fra gli afroamericani non più: molti uomini sono in prigione, perlopiù per motivi legati alla droga. Mi manca l’innocenza di allora».
La sua è una scrittura politica.
«Di sicuro il mio lavoro è più orientato verso i poveri, ma la differenza è che quando scrivo di povertà, lo faccio perché penso che ci sia gioia in quella vita. Non scrivo libri per dire quanto soffrano i poveri».
Una volta ha detto che a Brooklyn c’è sempre meno multiculturalismo e questo ha reso tutto molto più noioso.
«I ricchi hanno riscoperto questo borough perché è vicino all’acqua e, in pratica, hanno mandato via i poveri. In una parola, gentrificazione, che è l’opposto di multiculturalismo. Multiculturalismo è quando la gente fa una festa di quartiere e ti invita anche se vieni dalle case popolari. Le persone che si stanno trasferendo qui sono multimilionarie. Dopo avere pagato 5 milioni di dollari una brownstone che all’epoca in cui si svolge il romanzo ne costava 80 mila, non vogliono affacciarsi e vedere dei neri, dei portoricani o delle ragazze ispaniche seduti sui gradini di casa propria. I ricchi, purtroppo, comandano tutto, è lo stesso ovunque. Una volta c’era molta più equità, poi abbiamo eletto un presidente orribile. Ora però ne abbiamo uno che sta facendo un ottimo lavoro».
Le piace Biden?
«La storia dimostrerà che è stato uno dei migliori presidenti che abbiamo mai avuto. Lo adoro».
Perché?
«Ha un buon cuore e non ha paura di mostrarlo. Se un uomo è coraggioso, non ha paura di mostrare il suo cuore. Chi invece non lo è, cerca solo di far vedere “le palle”, come faceva Donald Trump. Cercava sempre di mostrare quanto era forte, intelligente, furbo. Ma in realtà era solo un codardo, un odioso codardo».
Chi vedrebbe bene come prossimo presidente?
«Biden».
Ma non è troppo vecchio?
«Se uno fa un buon lavoro, che importanza ha l’età?».
Si può essere cinici e buoni scrittori allo stesso tempo?
«Secondo me no. È per questo che ora sono seduto qui, in questo piccolo e strano scantinato che prima o poi vorrei sistemare, invece di essere, che ne so, alle Bahamas a guardare la spiaggia. La verità è che qui mi piace. Sono felice. Le dico una cosa: la felicità è nel cuore. Se il tuo cuore è spezzato, che cosa importa se sei seduto su uno yacht bellissimo? Questi russi, questi oligarchi, hanno yacht più grandi del distretto di Brooklyn. Ma, voglio dire, di quanti soldi hai bisogno? Ti renderanno davvero felice?».—