Tuttolibri, 21 gennaio 2023
Intervista a Colm Tóibín
Colm Tóibín, classe 1955, scrittore irlandese autore di magnifici racconti e di nove romanzi, tra cui Il testamento di Maria, La casa dei nomi e Brooklyn (vincitore del Costa Book Awards nel 2010 e da cui è stato tratto il film di John Crowley che si è guadagnato tre candidature all’Oscar, compresa quella alla sceneggiatura che Tóibín affidò a Nick Hornby). Come tutti i grandi, Tóibín non sta mai fermo, spazia, indaga e sperimenta, perché la noia è la cosa che più uccide la creatività. Non rimane insomma nello stereotipo dello scrittore irlandese, dei cieli plumbei e degli immensi spazi verdi, della povertà e dell’emigrazione. Già in passato, con The Master si era cimentato con i misteri e i non detti della vita di Henry James, scrittore geloso della propria intimità. Con Il Mago Tóibín torna alla biografia in una versione romanzata e anche questa volta compie un lavoro certosino di ricostruzione dei fatti e relazioni e luoghi, ma soprattutto delle ambiguità sessuali, ricostruendo la vita, l’omosessualità nascosta e l’esilio di Thomas Mann.
"The Master” e ora “Il Mago” immaginano la vita interiore di figure letterarie riservate e gay. Perché questi personaggi la affascinano?
«Penso che ciò che si legge nella tarda adolescenza possa avere una grande influenza su di noi, per tutta la vita. Quando andai all’università a Dublino nel 1972, Thomas Mann era molto di moda. Ho letto prima La montagna magica e poi Morte a Venezia, quindi il resto della sua opera. Nello stesso periodo leggevo anche Henry James. Allora credevo che un libro nascesse dalla certezza, dalla stabilità, dal diritto, che gli scrittori fossero persone potenti. Fu la lettura di una biografia di Virginia Woolf a farmi capire quanto fragile fosse la sua immaginazione, quanto poco potere avesse, quanta poca stabilità e certezza, che lei scriveva guidata più da paura e debolezza che dalla forza. E lentamente questo mi è diventato chiaro anche per James e Mann, soprattutto con la pubblicazione dei diari di Thomas Mann negli anni Ottanta e di alcune lettere di Henry James nel 2000. Mi sono interessato al divario tra l’uomo pubblico e l’anima privata. In James e Mann, questo divario era reso più ampio dalla loro omosessualità».
Quanto c’è di reale e quanto di immaginario ne “Il mago”?
«I contorni sono reali. Se dico che Mann era a Monaco in un certo anno, è così. Se dico che nel 1914 aveva un certo atteggiamento nei confronti del militarismo, è così. Se dico che qualcuno è morto, allora è morto. Ma questa è solo un’impalcatura. Quello che cerco di fare è creare un’illusione: che voi lettori non siate solo nella stanza, ma siate nella mente di Mann, che siate coinvolti emotivamente in ogni scena».
Perché questo titolo?
«È ironico e giocoso. I figli di Mann lo chiamavano “Il mago” perché diceva che aveva poteri magici. E ha scritto La montagna magica e Mario e il mago. E ha inserito forme di magia nel Doctor Faustus. Ma in verità Mann non era affatto un mago. Era un uomo ordinario, timoroso, incerto, inquieto».
Nei ringraziamenti lei cita una quarantina di libri su Mann. Quanto tempo ci è voluto per lavorare al romanzo e per scriverlo?
«Ho iniziato a progettarlo intorno al 2005, dopo Il Maestro. Ci ho pensato in tutti i suoi aspetti e ho letto libri che potessero aiutarmi a creare le scene per circa dodici anni. Poi ho iniziato a scrivere il libro».
Ha anche visitato i luoghi?
«È stato fondamentale. Nel 2005 sono andato nella casa di Mann a Los Angeles, quella costruita nel 1942. Poco dopo, ho visitato la casa dove viveva a Princeton. Poi a Monaco e a Nida in Lituania (dove costruì una casa estiva nel 1929). E poi a Lubecca, dove ho trascorso molto tempo. E poi a Polling, in Baviera. Ma credo che il luogo che mi ha ispirato di più sia stato Paraty in Brasile, dove è nata la madre, una casa sull’acqua, su un’insenatura, con un cielo limpido sulla testa, pieno di stelle di notte, a differenza di Lubecca dove era stata portata da bambina».
Lei ha rivelato che mentre scriveva, ed era alla fine del quarto capitolo, le è stato diagnosticato un cancro.
«Ero preoccupato di non riuscire a finire il libro. La chemio è stata intensa. Di solito scrivo una prima stesura a mano, ma una volta che mi sono sentito abbastanza forte da riprendere ho scritto direttamente a macchina, preoccupato che se fossi dovuto tornare a curarmi non sarei stato abbastanza forte da finire il libro».
Mann non è un uomo limpido. Nel suo romanzo emerge come un padre orribile, attratto sessualmente dal figlio maggiore e che, quando Klaus si è suicidato, non ha partecipato al funerale. Oggi si tende a giudicare l’uomo piuttosto che l’opera, cosa ne pensa?
«Il mio romanzo parla dell’artista. Non lo giudico. Tendo a vedere le cose in modo ambiguo. Nelle scene che riguardano Klaus, il figlio maggiore, ho cercato di muovermi lentamente, di mostrare tutto dal punto di vista del padre e di essere pronto a far vedere quanto Mann fosse debole, per certi versi venale, per drammatizzare il divario che c’era in lui tra il cittadino onesto e la sua vita segreta».
Infatti, c’è una grande distanza tra il modo in cui si presentava al mondo e la sua vita sessuale segreta. È questo che fa di un personaggio un grande personaggio?
«Penso che il romanzo sia particolarmente adatto a esplorare il modo in cui una persona si presenta al mondo e la distanza che c’è tra questo e il suo io interiore. Non la vedo in termini morali, ma come una sorta di energia, e lavorare con questa energia in una personalità complessa mi interessa».
La storia dell’ossessione di Gustavo per Tadzio in “Morte a Venezia” probabilmente oggi sarebbe censurata. O almeno uno scrittore ci penserebbe dieci volte, per evitare accuse di pedofilia o altro. Qual è la sua opinione su cultura Woke e Cancel Culture?
«Penso che sia importante non insultare o sminuire le altre persone. Ma non ho il coraggio di cancellarle. Credo nelle leggi che abbiamo accettato, nonostante le loro imperfezioni. Se si decide di migliorare una legge, su che basi lo si fa?».
Questo è anche un romanzo sull’invisibilità dell’omosessualità. Quanto era difficile essere gay nella Dublino degli anni Settanta?
«Molto facile e allo stesso tempo difficile. A Dublino, nella mia vita, c’è sempre stato un mondo bohémien, una controcultura, un luogo sicuro per il dissenso. L’ho scoperto non appena ci sono arrivato nel 1972. Sono rimasto in quella bolla anche in anni in cui sembrava che Chiesa, Stato e magistratura volessero fare del loro peggio. Poi la sfera pubblica irlandese è diventata più tollerante».
Katia, la moglie di Mann, è un personaggio meraviglioso. Che tipo era nella realtà?
«Era una persona estremamente tollerante e intelligente, molto più del marito. Veniva da un ambiente alto-bohémien di Monaco. Erano ebrei ricchi e assimilati. È stata una delle prime donne a studiare scienze in un’università tedesca. Sua nonna era un’importante femminista. L’omosessualità non spaventava queste persone; il nemico era l’ottusità. Katia non è mai stata noiosa. Ho fatto in modo che ogni sua frase abbia una sorta di scintilla».
Mann scrisse saggi ferventi e nazionalisti contro i “nemici” della Germania durante la I guerra mondiale, provando “genuina repulsione” per i nazisti. Nonostante ciò, per molti anni esitò a denunciare apertamente Hitler. Quanto può essere complesso il rapporto con il proprio Paese?
«In Irlanda, dopo l’ascesa del nazionalismo e dell’IRA, abbiamo dovuto ripensare il nostro rapporto con la storia, con la nazione, con la Gran Bretagna e con l’Europa. Si è trattato spesso di un processo lento e doloroso. In Germania, Thomas Mann passò da monarchico e militarista nel 1914 a democratico. Ma poi, in esilio nel 1933, i suoi libri non furono bruciati insieme a quelli di altri scrittori tedeschi. Sembrava che fosse al di sopra di tutto questo. I suoi erano ancora disponibili nelle librerie tedesche. Resisteva, sperando che Hitler venisse spodestato. Dal punto di vista della sua famiglia, ha resistito troppo a lungo. E poi divenne un nemico forte e implacabile di Hitler».
Un altro grande tema qui (come in gran parte della narrativa di Mann) è il declino, soprattutto della morale, dei Paesi e delle famiglie. Qual è la sua opinione in merito?
«Sì, Mann era affascinato dalle malattie. È presente in tutti i suoi libri, dalla morte di Hanno nei Buddenbrook al sanatorio de La montagna magica fino a Morte a Venezia. E sì, vedeva anche il declino della sua famiglia a Lubecca come un esempio più generale».
A cosa sta lavorando ora? È vero che sta pensando di fare un sequel di “Brooklyn”?
«Ho promesso che non l’avrei fatto, ma mi è venuta in mente un’immagine, l’ho trasformata in una scena e poi ci ho lavorato ancora. Siamo nel 1976, un quarto di secolo dopo la fine di Brooklyn. Gli stessi personaggi. Spero che il nuovo libro si regga da solo». —