Tuttolibri, 21 gennaio 2023
Gli amori di Sibilla Aleramo
«Le parole sono tutte usate. Una sola risponde alla realtà e pur non mi appaga: ti penso. Sempre, sempre, sempre, intendi? Ed è terribile. Mancava alla mia esperienza questa lucida follia: questa gioia senza causa e senza scopo, questo dolore nato non so come è che non so come morirà. Ciò che è in me di crudele è soddisfatto una volta ancora: ancora, posso sopportare la vita, non la vita che tutti intorno vivono, ma quella violenta, tempestosa, abbagliante, che si è compiaciuta di tormentarmi lasciandomi, per la dolcezza altrui, un volto di serenità: ancora sono più forte dell’onda che mi solleva contro il cielo» (Da una lettera di Sibilla Aleramo a Lina Poletti, 1909)
La storia d’amore tra Sibilla Aleramo, scrittrice trentenne già celebre e ammirata e Cordula Poletti, giovane intellettuale scapigliata di Ravenna è una sorta di coup de foudre nell’Italia provinciale della Belle Epoque, quando ancora le donne non avevano diritto di disporre dei propri beni né votare. Si tratta della prima storia d’amore tra due donne – due letterate impegnate nel movimento femminista agli esordi – di cui ci sia documentazione in Italia. Ma queste lettere sono altrettante pagine di poesia. Sibilla era bella, famosa e chiacchierata e aveva già scritto un romanzo di successo, Una donna, dove racconta in prima persona il dramma autobiografico che l’aveva portata ad abbandonare la casa coniugale. Cordula Poletti aveva invece la freschezza indomita di una ragazza «maschia» e come tale si abbigliava scandalizzando l’ambiente provinciale, incantando l’uditorio femminile con le sue conferenze dantesche e le recite di poesia in stile d’annunziano. Entrambe, dunque, scandalose e provocatrici, si incontrarono a Roma, allo storico Congresso delle donne del 1908. C’era una decina di anni di distacco tra loro, ma la vera differenza era nelle posizioni personali anche rispetto alla storia d’amore che vivevano clandestinamente. Lina sarebbe più attuale oggi, non volendosi identificare con gli stereotipi femminili che vogliono la donna sottomessa e destinata a quel ruolo tutta la vita; era un’antesignana transgender, prediligendo un atteggiamento da dandy, secondo i modelli arrivati d’oltralpe, come quelli del circolo delle Amazzoni, le amiche di Proust e di Colette.
«È un’illusione quella che ti trae a virilizzarti. Tu sei donna; e se sei donna; e sei donna di genio, devi avere caratteri distinti dall’uomo di genio, e se non li hai ancora scoperti, scrùtati, invece che appagarti di effimere somiglianze con grandi e piccoli fratelli. Perché, ad esempio, sentendoti attratta più dalla bellezza femminile che dalla maschile non hai studiato e vissuto il fenomeno in quanto donna? Tu neghi uno snaturamento in te, e io ti dico che esiste, mia Lina, te lo dico guardandoti con tutto il mio amore. Ad ogni modo anche quella gioia non si rinnoverà mai più, per me con altre donne» (1910).
Due modi diversi di concepire il femminismo e l’identità sessuale, ma che non impedivano loro di vivere una passione esaltante: «una lucida follia», appunto, come la chiamò efficacemente Sibilla, per cui ogni istante di quella passione fosse vissuto nei sensi ma anche padroneggiato nella coscienza, consumato e soppesato, nel piacere come nel pensiero, sapendo entrambe di costruire insieme un’esperienza innovativa, quindi politica, che non ha precedenti documentati nella storia delle donne in Italia. Il suo compagno, lo scrittore piemontese Giovanni Cena, con cui viveva a Torino, non riesce ad accettare la presenza ingombrante di Lina nella loro vita, armoniosamente condivisa tra libri, studi e nobili imprese sociali.
Il rapporto decisamente si spezza, quando Lina si sposerà con il suo amico Santi Muratori, il bibliotecario della Classense di Ravenna, intellettuale integerrimo che fu per lei un «compagno-scompagno» – così lui stesso si definisce – aiutandola da lontano in ogni contingenza. Gli anni degli esperimenti triangolari dell’emancipata Bloomsbury, di Virginia Woolf e Vita Sakville West, erano ancora di là da venire ed eravamo in Italia. Lina entrò poi in contatto con Eleonora Duse che diventerà il suo secondo grande amore e con la quale vivrà a Roma e a Venezia, frequentando Rilke e Hoffmansthal, prima di unirsi nel più lungo «matrimonio» della sua vita con la nobildonna imprenditrice Eugenia Rasponi, andando ad abitare con lei nella Rocca di Sant’Arcangelo di Romagna. Mentre Sibilla è una delle scrittrici più apprezzate del nostro Novecento, gli scritti di Lina sono andati praticamente dispersi, a parte quel poco che fu pubblicato in vita, così le lettere e persino le foto ritratto. Le ultime tracce di lei si perdono a Sanremo, dove morì sola senza lasciare eredi. Questa storia d’amore trascorsa senza alcun «senso di colpa» nell’Italia giolittiana perbenista costituisce una via di liberazione per desideri ed esperienze fino ad allora vissuti in segretezza.
Amo, dunque sono, che dà il titolo a un romanzo di Sibilla, ora è anche un testo teatrale, da me scritto, che sarà rappresentato a Roma nella prima settimana di febbraio al Teatro Off Off, con Viola Graziosi che interpreta il mito di Sibilla e alcune fasi di quell’amore controverso. L’amore per una donna, che fu unico, speculare o oppositivo, abbatte stereotipi culturali duri a morire e ripropone la forza di un’esperienza privata che fu vissuta in pubblico, concetto questo che è uno dei fondamenti della teorica-pratica del femminismo: la vita di una donna riguarda tutte le donne (e gli uomini di buona volontà) e la lotta per l’affermazione dell’amore, non solo omosessuale, esprime il diritto di tutti ad amare in libertà e coscienza. La filosofia prediletta da Sibilla, la sua cifra esistenziale, ne esce sempre salva: «Quando si ama, Lina, si ama sempre. Non momenti di illusione, ma una divina realtà perenne. Io ho amato di te perfino quell’ombra cupa che tu dici d’aver gettato sul mio destino assolato. La mia anima t’ha sempre trasformata in luce, come tutte le ombre della vita. Tu e la vita eravate una cosa sola per me. Oh, tu amerai un giorno, e saprai! Io, invece, perdendo te perdo per sempre la felicità. Ebbene, Lina, io piango lagrime di sangue, ma non maledico la vita, e lascerò prima di partire qualche parola di grazie. Ho amato, posso morire (1911)». —