La Stampa, 22 gennaio 2023
Intervista a Michele Serra. Parla di social
Da molti anni, il lavoro sommerso che ci occupa tutti sono i social network. Sono stati prima gioco, poi fuoco, poi mestiere e infine politica, potere. Abbiamo assistito a tutte le loro metamorfosi, manovrandoli, e adesso li osserviamo da lontano, come ha sempre fatto Michele Serra, scrittore e giornalista sprovvisto di account (ricorre, ogni tanto, a quelli anonimi per spiare splendori e miserie degli altri).
Facebook, Twitter, Instagram sono stati potenti come governi, e in certi casi, forse, persino di più. Non solo non hanno obbedito ad alcuna regola perché nessuno mai è stato capace di imporgliene, ma sono diventati lo spazio dove disarticolare quelle vigenti e sottrarsene. Hanno dato voce e ammutolito, nascosto e smascherato, accalorato e distanziato: azioni uguali e contrarie, sempre.
All’inizio del Covid hanno rappresentato un appiglio, ne abbiamo riscoperto il buono, ma proprio da quel punto in poi s’è aperta una crepa, e adesso sembrano diventati una delle tante cose dalle quali vogliamo dimetterci, o almeno prendere le distanze. Si parla ora di fine dei social network con una specie di incantamento, come se, liberi da Twitter, torneremmo a essere migliori (così ricordiamo di essere stati, per un effetto ottico di cui ci dota la sopravvivenza).
Propedeutico a questa specie di divorzio in casa, c’è stata una transizione: sono cambiati i padroni del futuro. L’intelligenza artificiale ha rubato lo scettro alle piattaforme. Capire come arriviamo a questo cambio di passo, di trono e di prospettiva, ci aiuta, forse, a immaginare quale alternativa o strada nuova, parallela o unica, saremo in grado di costruire ora che i social hanno perso crucialità.
Serra, che mondo sarebbe stato senza social?
«Un posto più simile al precedente, ovvero con meno parole. Nel bene e nel male. Nel bene: più rispettoso del potere della parola, e della responsabilità di chi la usa. Nel male: più sottomesso a chi quel potere detiene».
Che mondo sarebbe senza social, dopo che i social ci sono stati, se davvero tramontassero?
«Risposta ottimista: un mondo che ha imparato a sue spese che le parole sono preziose e non vanno sprecate. Sarebbe un mondo che ha tratto lezione dall’errore mortale dei social, che è la superficialità (la banalità, la volgarità). Una superficialità, per giunta, ostentata e imposta agli altri: chiassosa e oppressiva».
La cosa peggiore che è successa a causa dei social e che, se non ci fossero stati, non sarebbe successa?
«Abbiamo pagato un prezzo tremendo all’illusione demagogica che le parole di chiunque siano uguali alle parole di chiunque altro. Ne è nata una caciara planetaria che ha quasi azzerato la differenza tra vero e falso e tra competenti e incompetenti. La tecnologia è piena di occasioni, e di seduzione, ma incorpora il veleno della “facilità”. Fa credere che tutto sia a portata di tutti, tutto sia facile e niente costi fatica. Ma non è così che funziona la vita».
Faccia un bilancio: ci hanno migliorati o peggiorati?
«Non so dirlo. Sul serio. Mi auguro che siano una brutta esperienza che potrebbe averci reso migliori. Ma potrebbe anche essere stata un’esperienza che ci ha reso perfino più cretini e presuntuosi di quanto già eravamo».
Perfino, già. È vero che non conta il mezzo, ma l’uso che se ne fa?
«Conta anche il mezzo, eccome. Se qualcuno inventa una bomba atomica tascabile, alla portata di ogni pazzo, e di ogni imbecille, il mondo cambia, e cambia per uno scatto tecnologico fuori controllo. Lo scrittore Paolo Giordano ha detto: ci vuole cultura scientifica in una cornice umanistica. Ecco, la cornice umanistica mi sembra sempre più sbrecciata».
È vero che qualsiasi cosa, usata il giusto, è buona?
«Sì, credo che sia così. Ma la misura non è merce corrente, nella società di massa. Al contrario: dismisura e bulimia imperano, sono parte integrante del sistema. Nella società no-limits, la dismisura è il metodo. Dunque la misura uno deve darsela da sé, e non è semplice».
Come si può fare del bene attraverso un social network?
«Usandolo bene».
Concita De Gregorio dice che dobbiamo uscire da Twitter, che dobbiamo tornare a «invadere la vita degli altri come un incendio».
«Penso che prima di tutto dobbiamo tornare a invadere la nostra vita personale, la nostra vita materiale. Riappropriarci di noi stessi. Dissequestrarci dal sequestro digitale».
L’intelligenza artificiale, il nuovo padrone del futuro, la intimorisce?
«Quando guido la mia auto, una normale media cilindrata piena di intelligenza artificiale, mi affascina. Tremo quando penso chi ne avrà il governo, chi deciderà cosa farne. Tremo ancora di più quando penso che sia ingovernabile. Senza la politica, la tecnologia non ha testa e non ha direzione».
Come mai il potenziale democratico dei social si è trasformato nel suo opposto? Hanno messo in luce una debolezza strutturale della democrazia?
«Hanno messo in luce una debolezza strutturale degli esseri umani: la pigrizia intellettuale. La rinuncia a riflettere, e a prendere tempo prima di parlare».
Le relazioni sono davvero migliori “in presenza”? Cvetaeva e Pasternak non si vedevano mai, eppure si amarono profondamente.
«Non sono un grande cultore dell’amore spirituale. Restituire corpo alle nostre vite mi sembra sempre una buona idea».
Che significa evoluzione?
«Migliorare. Da molti punti di vista lo abbiamo fatto. Da altri, no. Siamo diventati più potenti (possiamo fare più cose), ma meno responsabili. Trepidiamo per i diritti, non sappiamo più cosa siano i doveri».
Crede che i social abbiano contribuito a quella esautorazione e a quella stanchezza che stanno portando alle dimissioni un numero sempre più vasto di persone?
«Credo di sì. I social fanno venire voglia di fuggire dalla folla. Forse è la sola maniera per ritrovare le persone». —