La Stampa, 21 gennaio 2023
Intervista a Umberto Galimberti
La donna più vecchia del mondo è morta il 18 gennaio scorso. Si chiamava Suor Andrè, viveva in una casa di riposo a Tolone, nel sud della Francia, e aveva 118 anni. Età ammirevole, ma non incredibile, almeno non per noi, abitanti della “età dei nonni”, come l’Economist ha definito il nostro tempo e, soprattutto, quello che verrà. La vecchiaia si allunga: dura, almeno nei Paesi più avanzati, vent’anni. L’infanzia, invece, si ritrae: i bambini sono sempre meno, quasi ovunque, persino in Cina, che quest’anno ha registrato il tasso di natalità più basso di sempre. «Non vedo ragioni di giubilo», dice a La Stampa il professor Umberto Galimberti, filosofo e psicanalista.
Bene o male che ci faccia, brutto o bello che sia, questo è il fatto: l’umanità non gattona, arranca. Ma, ammesso che il passo della vecchiaia sia l’arrancare, è vero che la sola strada percorribile arrancando sia quella del deperimento? Di certo lo è stato finora, per una combinazione di fattori e condizionamenti ambientali e culturali.
Come molte altre cose e aspetti della nostra vita, anche la vecchiaia richiede, allora, una revisione, una nuova indagine, per scoprirne i vantaggi, e munire la realtà degli strumenti giusti per farli fruttare.
Professor Galimberti, nel 2050 i nonni saranno il 22 per cento della popolazione mondiale. Secondo l’Economist, i primi a beneficiarne saranno i bambini.
«Ottimisti, questi inglesi. Ma sa, una volta il rettore dell’università di Praga mi disse che l’ottimismo è la qualità delle persone poco informate».
Vuole diventare il primo al mondo a dire che all’Economist sono poco informati? Ci sto, la aiuto.
«Diciamo che, semplicemente, come tutti gli inglesi, sono pragmatici: il tempo è denaro, e poiché i bambini tolgono tempo al lavoro, quindi al guadagnare, è bene darli a chi può occuparsene, e cioè i nonni, che di tempo libero ne hanno a non finire, anzi non hanno altro che tempo libero, di modo che possano occuparlo facendo ciò che dovrebbero fare i genitori, che possono dedicarsi completamente a far soldi».
Per l’Economist, i bambini che stanno insieme ai nonni sono più felici.
«E certo, perché i nonni li viziano! Ma i bambini devono crescere con i genitori. Il riferimento della madre è fondamentale nei primi due anni di vita di tutti noi: è lo sguardo della madre ciò che apre gli occhi ai bambini, è la sua approvazione che dà fiducia. Senza, si aprono due possibilità, entrambe nocive. Una è la depressione: se la mamma non accoglie le mie mosse di bambino, non mi loda quando faccio qualcosa di buono e non mi dà il limite, non mi sento riconosciuto. Noi viviamo di riconoscimenti: ci danno l’identità, che altrimenti non avremmo. L’altra strada possibile è il narcisismo: siccome non mi guarda nessuno, se non interesso a nessuno e non c’è uno sguardo che mi cura e mi corregge, allora prendo a fidarmi solo di me stesso. E divento uno dei narcisisti di cui è piena la terra: handicappati psichici a cui manca la struttura della relazione e che sono capaci di riconoscere l’altro solo se gli applaude».
Ma nessuno sostiene che i nonni debbano sostituire i genitori.
«Di fatto, però, è quello che accade e che accadrà sempre di più. E non è detto che faccia bene ai ragazzi: i vecchi, i nonni non danno loro una direzione. Sono i genitori a fornire i codici utili alla distinzione tra bene e male, giusto e ingiusto, vero e falso, e quindi in sostanza il principio di non contraddizione, il migliore strumento a nostra disposizione per combattere l’angoscia e quindi orientarsi nella vita. E poi, scusi, chi dice che tutti i vecchi e i nonni vogliano curare i bambini? Non è automatico».
Lei cura i suoi?
«No. Io sono un nonno assente, purtroppo. Non ho tempo per stare con i miei nipoti e allora per curarli li gratifico con dei regali, che prendono il posto di tutte le parole mancate. Ma i bambini crescono con le parole, non con i regali».
Però magari ci sono nonni che sono presenti.
«E beati loro, e siano benedetti. Ma essere presenti non significa allevare. Il rapporto primario resta quello genitoriale. E poi i vecchi hanno una mentalità vecchia: in un mondo che si trasforma velocemente come il nostro, loro insegnano quello che sanno e che hanno imparato da giovani, in una giovinezza molto lontana da quella attuale. Quindi sono inadeguati».
Vittorino Andreoli scrive nel suo Lettera a un vecchio (Solferino) che la vecchiaia è una nuova condizione, inedita e straordinaria.
«Ripeto: l’ottimismo è la qualità di persone non informate».
Lei è ostile all’idea di vedere e accogliere una nuova condizione.
«Allora diciamo una cosa vera: la medicina non ha allungato la vita, ma solo la vecchiaia. La vecchiaia consiste nell’assistere senza interruzione al progressivo degrado del proprio corpo. Ed è qualcosa che induce tristezza e malinconia. Certo, i vecchi vengono assistiti dal punto di vista fisico e medico, ma chi li accarezza? Chi lenisce la loro tristezza? Io sono convinto che i vecchi muoiano perché nessuno li accarezza».
Non li accarezziamo perché li troviamo repellenti, e li troviamo repellenti perché siamo convinti che la vecchiaia sia quello che dice lei: assistere a un degrado.
«No, li troviamo repellenti perché cresciamo con il mito della giovinezza. Questo, e non il vedersi invecchiare, affligge i vecchi. Meglio: detestano vedersi invecchiare perché soffrono il mito della giovinezza. E allora quelli che possono permetterselo, si fanno il lifting in faccia. Al cervello dovrebbero farselo, altroché».
Smonti il mito della giovinezza.
«Impossibile. I vecchi sono un peso: durante il Covid sono certo che molte persone che hanno perso familiari anziani hanno tirato un sospiro di sollievo. Dopo Natale, i miei pazienti mi hanno raccontato di essere scappati dalle case dei nonni dopo due giorni perché stare con i vecchi è faticoso. Ma lei non li vede quei poveretti per strada accompagnati dalle badanti che con una mano tengono loro e con l’altra scorrono il telefono? Spettacoli della paura, ma veri. Perché la verità è che a questo mondo esiste l’orrore, e io sono stufo dell’incapacità generalizzata di ammetterlo e vederlo».
Lei però parla di una realtà che è frutto di costruzioni culturali molto precise. Quindi insisto e le chiedo: la vecchiaia ha qualcosa di bello, in sé?
«Se mettessimo in pratica quella frase del Levitico, “Onora la faccia del vecchio”, magari i vecchi potrebbero accedere al bello della loro età».
E la saggezza, non è una virtù dei vecchi?
«Stupidaggini. I vecchi non sono saggi: sono quello che sono stati quando erano meno vecchi, e spesso aggravano i tratti peggiori».
Perché non si fa spazio ai giovani in questo Paese?
«Perché si pensa in termini economici: i giovani non hanno esperienza, per trovare lavoro conta solo quella, ed ecco che sono fuori da tutto. Comunque non mi sembra che altrove i ragazzi vengano ascoltati. Greta Thunberg viene dalla osannatissima Svezia, e non mi sembra che quello che dice incida. È scandaloso il modo in cui trattiamo i ragazzi. Mi invitano a far conferenze per incoraggiarli ma io con loro sono molto onesto e gli dico chiaramente che per loro non c’è più niente e che vivono immersi nel nichilismo ed è da lì che devono partire. Loro lo sanno e mi ringraziano: si vedono riconosciuti».
Chi sono i responsabili?
«Gli adulti, non i vecchi».
E come facciamo a evitare che i ragazzi diventino adulti così?
«Non c’è alcuna possibilità: nascono in un mondo strutturalmente individualista».
Ma i ragazzi in strada per la lotta ambientale non sono individualisti.
«Aspetti che comincino a lavorare e ad avere un minimo di potere. Diceva già Cavour: se vuoi un buon conservatore, cercarlo domani tra i rivoluzionari di oggi».
Insomma, tutto un disastro.
«No. Non è un disastro: è la realtà. Solo che noi da buoni cristiani continuiamo a pensare che il futuro sia una promessa, mentre è soltanto il tempo che viene dopo il presente, e se la cultura è questa e non la si cambia, il futuro sarà come adesso, punto».
In Francia scendono in piazza contro l’aumento dell’età pensionabile. Che ne pensa?
«Si deve lavorare finché si muore, non si deve mai andare in pensione».
Non le pare troppo?
«A eccezione dei lavori demotivanti».
Cosa che ormai sono praticamente tutti.
«Allora a eccezione di quelli usuranti, dove sono impiegate persone che chiamiamo “risorse umane”, come fossero minerali. Che vergogna».
Lei è molto arrabbiato.
«Sì perché sono stufo di sentire di libri e pensieri che hanno una visione ottimistica della vita. Così si inganna la gente e io non voglio ingannare nessuno, tanto meno i giovani».
Ma la speranza non è un inganno, ma una chance.
«È una categoria cristiana che non mi appartiene. L’aveva già eliminata dal suo vocabolario Pier Paolo Pasolini». —