la Repubblica, 22 gennaio 2023
Intervista a Ryszard Horowitz
Roman ha 89 anni, Ryszard 83. I due vecchi amici d’infanzia s’incontrano – a sessant’anni dall’ultima visita a Cracovia, in Polonia. È la prima volta che si ritrovano nella città natale.
Volati da Parigi e New York, Polanski e Horowitz s’abbracciano forte all’aeroporto, intraprendono, in tram e a piedi, un itinerario nei luoghi della loro infanzia e dell’orrore vissuto. Tra il ghetto e il cimitero, la sinagoga, le vecchie abitazioni di famiglia, in una città tanto cambiata che Polanski la definisce “Disneyland”. È un sorprendente viaggio della memoria, quello del regista premio Oscar e dell’artista della fotografia digitale, filmato dai due giovani cineasti connazionali, Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer. Hometown(prodotto da Luca Barbareschi), è in sala il 25, a ridosso del Giorno della memoria. Horowitz, pioniere della fotografia digitale, è uno dei più giovani sopravvissuti ai campi di sterminio, uno dei bimbi di Schindler.
Che viaggio è stato per lei?
«Con Roman non lo avremmo mai nemmeno sognato, ma quando ce l’hanno proposto ho pensato che era una buona idea registrare tutto per i nostri figli, i nostri nipoti, perché capissero la situazione straordinaria che abbiamo fronteggiato giovanissimi e ha influenzato tutto ciò che siamo anche oggi. Quando i figli e i nipoti hanno avuto la mia età di allora ho realizzato il pericolo estremo che avevo vissuto. Per fortuna al tempo non ne ero consapevole, senza punti di riferimento non avevo idea che ci fosse una vita migliore. Per noi quella era la normalità».
Con Polanski non avevate mai confrontato i ricordi?
«No, e per me era importante farlo, considerando che lui è più grande di me. Pensavo che le sue ricostruzioni fossero più accurate delle mie, ma non ne sono sicuro. Lui è quel che è, un regista pieno di fantasia. Alcune delle sue osservazioni erano leggermente “fuori luogo” rispetto alla mia esperienza personale.
Questo incontro ci ha dimostrato quanto la nostra amicizia fosse sincera».
Come ha trovato il suo amico?
«Mi ha stupito. Si muove e parla come un giovane, col giubbino di pelle, solo da vicino ne capisci la vera età».
Che ragazzo era Roman?
«Capriccioso, sbrigativo, suo padre diceva al mio che lo avrebbe voluto come me. Roman dice che quello viziato ero io: la verità sarà nel mezzo. Ma non abbiamo mai litigato, per meera un fratello maggiore. È sempre sempre stato curioso, insieme abbiamo scoperto la vita, attraverso la camera oscura, la musica, i film».
Siete sempre rimasti in contatto.
«Ci siamo incontrati ovunque nel mondo. Ma mai a Cracovia, e mai avevamo parlato del passato. Ricordo un periodo in Cina, e venne con Il coltello nell’acqua al New York film festival. Ho fotografato i suoi set, con
mia moglie andiamo a Parigi da lui».
I film di Polanski che ama di più?
«Uno dei primi, Due uomini e un armadio in cui era previsto un mio cameo. Ogni volta prendo in giro Roman che l’ha tagliato e lui fa la faccia seria: “L’ho fatto per il bene del film”. Suggestivi i set diRosemary’s BabyeMacbeth. Mi piace Chinatown.
Ma non voglio giudicare i film, lui è attento a non criticare le mie foto».
La sua arte non è stata influenzata dal passato.
«È vero, sono stato fortunato. Roman invece ha girato Il pianista, i suoi film sono pieni di orrori e difficoltà umane. Tengo il mio lavoro lontano dal passato, anche se critici e amici ne trovano tracce nelle foto. Tuttavia sono alla ricerca del passato. A fine guerra mi sono ricongiunto alla mia famiglia, Roman invece non ne avevauna, perciò nel film dice che forse quel periodo non è stato così terribile per me, come per lui».
Lei è uno dei bimbi di Schindler.
«A tre anni vivevo nel ghetto di Cracovia, poi ci siamo trasferiti al campo per lavorare alla fabbrica di Schindler. Quando fu spostata in Repubblica Ceca, con mio padre e mio cugino siamo stati trasferiti in treno. Ma lì abbiamo scoperto che le donne erano state mandate ad Auschwitz. Schindler è andato a salvarle, lo ha sostituito un nazista brutale, con la scuosa che il campo non è adatto ai bambini, chiude padri e figli in un treno verso Auschwitz.
Siamo a metà del ‘44. Lì, una scena surreale: con altri bimbi, davanti al filo spinato, vedo un treno che parte, carico di donne: c’è mia madre, ci salutiamo per un minuto. Quando i russi si avvicinano a Auschwitz i tedeschi si spostano a Mauthausen, portando gli uomini validi. Un amico di papà mi nasconde nel magazzino di cibo e uniformi naziste, poi in unreparto di malati contagiosi. I russi ci liberano, finisco in orfanotrofio, mi trovano amici ci papà, finisco in una casa dove c’è Roman, suo padre è anche lui a Mauthausen, e sua madre è stata uccisa. Roman si era nascosto fuori Cracovia, da una famiglia di contadini. Mesi dopo mia madre e mia sorella mi vedono in un documentario, mi trovano. Tornano mio padre e quello di Roman. Siamo rimasti in Polonia fino al ‘56. Poi Roman è andato a Parigi e a Londra, non l’ho visto fino ai primi anni 60».
Lei compare nella scena finale di “Schindler’s list”.
«C’è stato un momento in cui doveva girarlo Roman. Spielberg ci ha portato a Gerusalemme e io tra i sopravvissuti speravo di scoprire di più del mio passato, ma invano. È plausibile che Roman ce l’abbia fatta in campagna, tra gli stenti, ma io ero una creaturina senza genitori, nei lager: come sia sopravvissuto è qualcosa che va oltre la mia comprensione».