la Repubblica, 21 gennaio 2023
Duecento anni fa Beethoven creò la Nona
Per buona parte dell’anno 1823, quando era un cinquantenne malandato in salute, Ludwig van Beethovenfuimpegnato nella composizione della sua Nona sinfonia in re minore opus 125.Era venuta finalmente a compimento l’idea lungamente coltivata di unire il canto alla musica sinfonica, un vecchio sogno che in parte aveva già provato a realizzare, per esempio nel 1808 con la
Fantasia per soli coro e orchestra opus 80.
Erano passati circa dieci anni dalla composizione della sinfonia precedente, l’ Ottava, della quale – a volerne riassumere in due parole il clima di fondo – si potrebbe dire che esprime soprattutto una cordiale gioia di vivere. Tutt’altra,come tutti sanno, l’atmosfera della Nona, anche se la parola “gioia” curiosamente ritorna. Non della stessa “gioia”, però, si tratta; quella dell’ Ottava è semplice, quasi rustica, una gioia paesana; nella Nona diventa una gioia complessa, drammatica, lanciata verso l’utopia.
Non è soltanto questione di atmosfera, i dieci anni trascorsi tra la penultima e l’ultima sinfonia sono anche quelli in cui il maestro compie un salto compositivo e stilistico così vertiginoso che qualcuno è arrivato a parlare di un “terzo stile” beethoveniano, a partire da quella data. Gli appunti presi nel corso degli anni, qualche tema annotato su un taccuino – per esempio un embrione di fuga dove si riconosce quella del secondo movimento – trovarono finalmente il punto di coagulo per cui l’anno1823 fu dedicato quasi per intero alla stesura dei primi tre tempi. L’occasione, potremmo dire il pretesto, era stato extramusicale. Nel dicembre del 1822 la londinese Philarmonic Society aveva commissionato al musicista una nuova sinfonia. Beethoven aveva accettato l’offerta con entusiasmo, compreso l’impegno – rafforzato da un anticipo di cinquanta sterline – a far eseguire a Londra la prima esecuzione pubblica. In realtà l’impegno non venne rispettato, come spesso gli accadeva, e laNona vide per così dire la luce – dopo numerose incertezze – a Vienna la sera del 7 maggio 1824 nel Teatro di Porta Carinzia.
La complessa direzione dell’insieme strumentale e vocale era formalmente affidata allo stesso compositore. In realtà due maestri sostituti (come li chiameremmo oggi) cioè Ignaz Umlauf e Ignaz Schuppanzigh provvedevano all’effettiva direzione mentre il Maestro si sbracciava in alcuni movimenti (qualcuno li definì “forsennati”) non sempre in sincrono conquando sistavasuonando. Quando scoppiarono gli applausi finali, Beethoven era ancora chino a sfogliare la partitura. L’esito fu trionfale, una delle soliste corse a girare il compositore, che sedeva spalle alla platea, verso il pubblico perché potesse vedere – se non udire – le braccia levate, lo sventolio festoso di cappelli e fazzoletti che salutavano l’ultima prova del suo genio.
Per cinque volte Beethoven dovette tornare in scena a ringraziare il pubblico. Non altrettanto felice per la verità l’andamento degli incassi. La vendita dei biglietti riuscì a malapena a coprire le spese, Beethoven amareggiato si sfogò veementemente con l’organizzatore in una cena offerta al Prater dopo il concerto. Poco più che cinquantenne (era nato nel 1770) il maestro soffriva enormemente sia per la sordità sia per alcuni aspri disturbi gastrointestinali che lo costringevano più volte nella giornata ad alcune umilianti incombenze. Il figlio del compositore Carl Maria von Weber riferì che suo padre aveva trovato il Maestro: «in una tetra, quasi sordida stanza». Sparsi sul pavimento c’erano fogli di musica, soldi, vestiti, sopra il letto era ammucchiata della biancheria sudicia, il pianoforte era ricoperto da uno spesso strato di polvere.
Un suo ritratto verbale lo descrive in questi termini: «I folti capelli, grigi, irti, quasi bianchi in certi punti, la fronte e il cranio straordinariamente ampi e arrotondati… Un cupo rossore gli coloriva il largo volto pustoloso; sotto le sopracciglia fitte e torvamente aggrottate, due occhietti brillanti fissavano con benevolenza i visitatori».
Solo alcuni storici della musica sonooggi ingrado di valutare quale dovette essere l’impatto dellamonumentalesinfonia sugli ascoltatori del tempo. Due secoli fa non c’era altra fonte musicale che non fosse quella dal vivo, strimpellata da un organetto o eseguita da un’orchestra. Noi oggi viviamo circondati, quasi sommersi dalla musica, bella o brutta che sia, spesso dovendola passivamente subire senza davvero ascoltarla. Tonalità e accordi hanno molto attutito il loro significato per l’orecchio dell’ascoltatore medio.
Questo enorme cambiamento ha trasformato il canone d’ascolto, per conseguenza reso più difficile (più aleatorio) il giudizio. Per di più laNona sinfonia ha sofferto non poco della sua stessa popolarità. Come disse Claude Debussy laNona ha finito per condividere il destino di Monna Lisa il cui sorriso è finito perfino sulle scatole dei biscotti. Il tema dell’ Inno alla Gioia,
arrangiato da von Karajan, è diventato l’Inno dell’Europa unita;scelta sicuramente felice ma che certo non ha giovato al significato originario della sinfonia come Beethoven l’aveva immaginata – e scritta. L’Ode alla Gioia di Schiller è un inno alla fratellanza umana: Alle Menschen werden Bruder
(tutti gli uomini saranno fratelli) dicono le sue parole. Seid umschlungen, Millionen! /
Diesen Kuss der ganzen Welt! – Abbracciatevi, moltitudini. Questo bacio al mondo intero!
Ci sono gli ideali dell’illuminismo nei versetti del poeta cheBeethoven ha fatto suoi; c’è il sogno della pace universale di Kant sia nella poesia sia nella potente musica che la sublima. Emerge dalle parole e risuona nelle note il ritratto dell’eroe – quello stesso che Beethoven ha accompagnato al sepolcro nel secondo movimento della sua Terza sinfonia. L’eroe beethoveniano è l’essere umano capace di affrontare gli eventi, le avversità i contrasti, con dignità e coraggio.
Con piena coscienza si può affermare che questo ritratto si applica in primo luogo a Beethoven stesso: afflitto dal male, privato del senso dell’udito, dopo una vita piena di difficoltà, ebbe il coraggio di cantare niente meno che la Gioia. Non in particolare la sua ma quella del genere umano (Alle Menschen), perduto in uno slancio di generosa, quasi folle, utopia.