la Repubblica, 21 gennaio 2023
Perù in rivolta
Tutto inizia qui, all’incrocio tra calle Cuzco e calle Lampa. Pieno centro di Lima, a due passi dalla Plaza de Armas. Sullo sfondo si staglia il Palazzo Pizarro, sede della presidenza. È l’obiettivo della folla oceanica che da tre ore ha invaso la capitale. L’hanno promesso, adesso sono solo in cinquantamila, arrivati dalle 13 regioni da una settimana in rivolta e sottoposte a coprifuoco. L’hanno chiamata la “Marcia per la presa di Lima”. Ricordano gli ultimi giorni del 2000 quando il Perù si ribellò ad Alberto Fujimori, invase le strade e costrinse il dittatore alla fuga. Dodicimila agenti difendono la capitale.
La storia si ripete. All’interno del palazzo, collegata in diretta con i ministri della Difesa e dell’Interno, è barricata la presidente Dina Boluarte. Mezzo paese chiede le sue dimissioni. Ha preso il potere con un colpo di mano. «Un attacco alla democrazia», gridano in mezzo a una selva di bandiere con i colori nazionali. Era la prima vicepresidente e dopo l’arresto di Pedro Castillo toccava a lei prendere il comando, così dice la Costituzione.
Boluarte sa di essere debole. È sostenuta solo dai militari. Ha comunque un vantaggio: proviene anche lei, come Castillo, dalle Ande, regione di Apurimác. Conosce la sua gente, quelle popolazioni sempreai margini del potere. Chiede una tregua, condivide il dolore per le 53 vittime colpite dai proiettili esplosi dalla polizia. La maggioranza dei morti non partecipava agli assalti degli aeroporti di Juliaca, Arequipa, Cuzco, Lambayeque. Sono morti sull’uscio di casa mentresoccorrevano chi era stato colpito dai proiettili.
La foto delle 22 bare allineate sulla piazza centrale di Puno è il simbolo di questo sciopero nazionale che adesso si trasforma in guerriglia. È stato convocato da tutte le organizzazioni sociali e i sindacati.Hanno aderito gli studenti e i professori. La polizia ha tollerato ma poi, ieri mattina, è entrata con la forza nei campus e ha fatto sgomberaretutti. Dal 7 gennaio scorso milioni di peruviani, contadini, operai, commercianti, lavoratori informali, minatori, si sentono orfani. Privati del riferimento che con Pedro Castillo aveva restituito loro dignità e rappresentanza. Non basta cambiare presidente. Bisogna ricominciare daccapo. Sciogliere il Parlamento, indire subito nuove elezioni generali. Il Palazzo su cui puntano adesso i manifestanti è sordo ad ogni richiesta. Questo alimenta rabbia e frustrazione. Bocciata la proposta di anticipare il voto: non più quattro ma due anni. Non bastano gli appelli per fermare le violenze.
Il corteo si divide in spezzoni: una parte prosegue lungo il percorso, un’altra si scaglia sul cordone di poliziotti. Lo scontro è durissimo. Sassi contro lacrimogeni. Gli agenti sono travolti, ne arrivano altri, reggono l’urto. Alle spalle spuntano i blindati, i soldati sono chiusi in caserma ma pronti a intervenire. Nel caos scoppia anche un incendio, brucia un palazzo. Le fiamme gialle e rosse illuminano la notte di Lima. Ci sono 22 feriti, 7 arresti. Due nuovi morti per gli altri scontri nel sud durante i tentati assalti agli aeroporti di Cusco, Ayacucho e ancora Juliaca. La folla si disperde. La presidente si presenta in tv. Accusa alcune frange che «cercano di violare lo Stato di Diritto». Tiene il punto, non si dimette. «Il governo», assicura, «è fermo e il mio gabinetto è più unito che mai». Non è finita. I cinquantamila restano a Lima, pronti a scendere di nuovo inpiazza.