Corriere della Sera, 21 gennaio 2023
Lewinsky non perdona
Verrebbe da dire che dopo venticinque anni di riflessione, psicoterapia, un ottimo dottorato alla London School of Economics, varie attività imprenditoriali, alla soglia dei cinquat’anni anni Monica Lewinsky (l’ex stagista dell’omonimo scandalo clintoniano) elencando le cose che ha imparato nella vita avrebbe incluso, magari nella «top ten», «mandare immediatamente in lavanderia l’abito blu». Invece, quando Vanity Fair americano (del quale è collaboratrice da oltre un decennio) le ha chiesto di elencare le venticinque cose che ha imparato nei venticinque anni che sono passati dall’esplosione dello scandalo, ha menzionato altro.
Sono passati – incredibilmente, per chi c’era – 25 anni da quel 17 gennaio 1998, quando il sito di gossip (ammanicato con i repubblicani di Washington) Drudge Report scrisse che l’allora presidente Clinton aveva un’amante ma Newsweek sapeva tutto e non pubblicava la notizia. Il 21 gennaio la vicenda arrivò sul Washington Post costringendo il 26 gennaio Clinton a rilasciare la smentita che ne provocò l’impeachment: «Non ho mai avuto relazioni sessuali con quella donna, la signorina Lewinsky».
Il problema è che con la stagista invece aveva avuto nove incontri attraverso diciotto mesi, sufficientemente intimi da lasciare sul di lei celebre abito blu tracce del Dna presidenziale. Il grintosissimo, repubblicanissimo procuratore speciale Kenneth Starr che indagava su uno scandalo immobiliare dei Clinton (che non era uno scandalo, finì in nulla) entrò a gamba tesa nell’inchiesta portando, alla fine, all’impeachment.
Lewinsky finì braccata dalla stampa, Clinton subì la messa in stato d’accusa della Camera (prima di allora era capitato solo nel 1868 a Andrew Johnson, Nixon si dimise prima, e adesso Trump in quattro di presidenza ne ha incassati due) per poi finire assolto dal Senato. L’ultimo scandalo globale del Novecento, prima che l’11 settembre e la fine dell’impero americano (adesso che anche gli storici di destra come Niall Freguson usano «impero» il termine è sdoganato) e soprattutto smartphone e social media cambiassero per sempre le carte (anche politiche) in tavola.
Ma quali sono le cose che ha imparato Lewinsky? La numero 25 è la più significativa proprio perché è per sua stessa ammissione la più semplice: «Infine, non so come dirlo se non in modo banale: puoi sopravvivere all’inimmaginabile». Certo, critica la presunta amica Linda Tripp repubblicana di ferro che registrò le loro telefonate-confessione per poi denunciarla («Giuda le fa un baffo»), critica Clinton (l’articolo s’intitola «Venticinque anni dopo la calamità Clinton») che oggettivamente la trattò in modo molto greve e poi immediatamente cercò di svergognarla come bugiarda, non riserva scuse a Hillary (che nelle registrazioni trippiane lei irrideva come «la babbiona», la chiamava così anche con l’amante), soprattutto insiste sul suo ruolo di vittima di forze oscure (in realtà visibili a occhio nudo già allora: uno degli avvocaticchi repubblicani che interrogarono minuziosamente Clinton sui suoi rapporti (orali) con la stagista adesso è giudice a vita della Corte Suprema, nominato da Trump.
Lewinsky – il suo brand di borse è finito male – ora fa la produttrice tv e odia – comprensibilmente, a 22 anni chi non ha fatto errori marchiani nella vita? – i media ai quali peraltro vendette la sua storia a caro prezzo (1 milione di dollari per l’intervista esclusiva, almeno mezzo milione di anticipo escluse le royalties per l’autobiografia scritta dal biografo del suo idolo Lady Diana, Andrew Morton, abbondanti comparsate in tv).