Corriere della Sera, 22 gennaio 2023
L’ultimo discorso da leader di Letta
L’invito all’autenticità, intesa come non fingere. Perché è ora di farla finita con l’ipocrisia con la quale ci si relaziona nel Pd. E l’accettazione, personale e come partito, dei momenti in cui non ti bastano tre telefonini per rispondere a chi vuole parlarti e quelli in cui un telefonino è anche troppo, perché non ti cerca più nessuno, sapendo però che si può lavorare per tempi nuovi e migliori. Il calice amaro fino all’ultima goccia, quello della sconfitta e delle sue conseguenze, perché non si scende dalla croce. E la citazione di San Paolo, che vede «giunto il momento di sciogliere le vele», perché «ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede». Enrico Letta prende commiato con il suo ultimo intervento da segretario davanti all’Assemblea nazionale del Pd, anche se il suo ruolo verrà meno soltanto dopo le primarie, con l’elezione del nuovo leader del partito. E lo fa con l’impegno a una protesta pubblica, il 24 febbraio, davanti all’ambasciata russa, come già avvenne un anno fa, primi in Europa, nel giorno dell’invasione dell’Ucraina.
I sassolini restano nelle scarpe, tiene per sé «amarezze e ingenerosità», rivendica il sacrificio di essere rimasto sulla tolda per mesi dopo le elezioni, a incassare e a parare i colpi, vincendo il desiderio di farsi subito da parte, proprio per preservare la nuova dirigenza dal vento della sconfitta nel momento in cui soffiava più forte.
Tanti i ringraziamenti, su tutti quello, sentito, a Romano Prodi. Ma i riferimenti, per quanto sfumati, al percorso accidentato che ha dovuto percorrere da quando è diventato segretario del Pd, il 14 marzo del 2021, non sono mancati. A cominciare dal richiamo alla koinè, parola d’origine greca per indicare la necessità di una lingua comune che si sovrapponga ai dialetti locali. Esplicitato in una sorta di appello ai quattro candidati alla segreteria: «Chiedo a ognuno di voi di parlarvi e di cambiare una cosa fondamentale, che per me è stata la più complicata da vivere. Il segretario del Pd non può passare tutta la sua giornata a mettere tutte le sue energie nella composizione degli equilibri interni, per poi dedicare i ritagli di tempo per pensare a cosa dire agli italiani. Perché così siamo rovinati». È l’eterna contraddizione di una forza che si vanta della differenza rispetto agli altri rifiutando il partito personale, ma che poi, invece di costruire una comunità, spesso si perde nei mille rivoli delle correnti, degli interessi individuali, della caccia ai posti di potere. Nel ringraziamento di Letta al suo predecessore Nicola Zingaretti c’è il riconoscimento della via crucis che ha attraversato, con i capi delle correnti che gli hanno tenuto perennemente il coltello alla gola, e la convinzione di aver ricevuto un trattamento diverso, ad eccezione forse di un rapporto a dir poco difficile con Andrea Orlando. Ma l’effetto solitudine non gli è stato fatto mancare, soprattutto nelle campagne elettorali, seguendo la regola aurea del Pd, secondo la quale vai avanti tu, che se vinci tu vinciamo tutti, se poi perdi sta a te fare il capro espiatorio e trarre le conseguenze. Ma anche la convinzione che il congresso si è messo sul binario giusto e quindi lo sprone ai candidati all’unità e a parlare al Paese.
La primavera
Io vorrei che oggi fosse
il 21 marzo, il primo giorno di primavera
del nuovo Pd. Inizia una nuova stagione
Oggi è finito l’inverno
Nessun accenno diretto nemmeno alla sconfitta personale e politica più grande, quella cioè di aver creduto di poter unire le opposizioni per fronteggiare alle urne l’alleanza di centrodestra guidata da Giorgia Meloni. Se non nel passaggio in cui si dice convinto, senza citarli, che il tentativo di Matteo Renzi, Carlo Calenda e Giuseppe Conte di sostituirsi al Pd, condannandolo all’ irrilevanza, è fallito. Non è riuscita a loro la cura che Emmanuel Macron e Jean-Luc Mélenchon hanno riservato al partito socialista francese, segnandone il dissolvimento. E poi la promessa: «Non costruirò un altro partito alternativo al Pd», con chiaro riferimento implicito a una storia relativamente breve che ha conosciuto cannibalismo e scissioni, a cominciare dagli strappi di Pier Luigi Bersani, seppure ricucito, e a Italia viva, fino anche, per qualche verso, al distacco di Azione.
Non è pentito, Letta, di essere tornato da Parigi, e spera che con lui non siano pentiti i ragazzi dello staff che lo hanno seguito. Non ha rammarico perché si sente «più innamorato del Pd» di quando ha cominciato la sua avventura, e pensa che il suo addio al ruolo di massimo dirigente sia assai diverso da quello del 2014, quando soffrì quello che considera il tradimento del suo segretario di allora, Matteo Renzi. Lascia senza recriminazioni e con rapporti personali non lacerati, e anche con la speranza che la prova dei fatti mostri i limiti di questo governo, anche di fronte all’opinione pubblica, lasciando ai democratici un margine per tentare una risalita nel corso della legislatura. Resta però la citazione di San Paolo, sulla quale vale la pena di indagare perché il riferimento è alla Seconda lettera a Timoteo, che dice anche altro di quanto raccontato all’inizio. Avverte della necessità di lottare contro il pericolo attuale dei falsi dottori, e mette in guardia sull’arrivo di tempi difficili, dove gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanitosi, ingrati, sleali, maldicenti, intemperanti, intrattabili, nemici del bene, traditori, sfrontati. Un bivio non da poco per il Paese e per il nuovo Partito democratico.