La Lettura, 21 gennaio 2023
La musica e la guerra
L o scrittore, poeta e premio Nobel britannico Rudyard Kipling (1865-1936), a proposito dell’utilità della musica come strumento per sostenere la mobilitazione di tutte le forze in campo del suo Paese nel primo conflitto mondiale, in sintesi la pensava così: «Metti su bande, e molte, assolutamente, se le puoi trovare (...). Un tamburo e un piffero, e un suonatore di cornamusa, a disposizione di ogni capitano di compagnia, farebbero meraviglie (...). L’amore della patria, l’orgolio della razza, la gloria storica e tutto ciò che crea il patriottismo parla più chiaro in queste circostanze che non sotto l’influenza dell’oratore più ispirato». La musica varrebbe dunque più della parola per scaldare gli animi e tenere acceso il fuoco dell’anima per la patria.
Il frammento è tratto da Il suono della guerra. La rappresentazione musicale dei conflitti armati di Carlo Piccardi, un volume di 702 pagine, suddivise in 19 capitoli, in cui l’autore indaga, dal Rinascimento in poi – con una conoscenza che spazia dal secentesco King Arthur di Henry Purcell fino alla New Orleans di Louis Moreau Gottschalk e a Die Soldaten di Bernd Alois Zimmermann —, un tema sciaguratamente attuale. La musica in questi casi esce dalla sua semplice funzione estetica di intrattenimento e piacere per assumere altri connotati: quelli del nazionalismo e del patriottismo, di una memoria postuma, di una denuncia, di intenti descrittivi e anche i tratti della censura. Perché i suoni (come il cibo, del resto) sono sempre stati un elemento che ha facilitato, più di altri, l’incontro tra culture diverse ma, in caso di scontro, si ritrovano sulla linea del fuoco. Un caso su tutti: quello della Entartete Musik, la musica degenerata, così definita dai nazisti perché composta da autori ebrei e/o secondo stilemi «inaccettabili».
Il saggio di Piccardi si avventura in questo percorso tra guerra e musica. È assai interessante, per esempio, notare come i conflitti abbiano acceso compositori anche insospettabili, facendo emergere in loro un inaspettato nazionalismo. Come nel caso di Johannes Brahms, «compositore dell’intimità», che, spinto dagli avvenimenti del conflitto tra Prussia e Francia, compose il Triumphlied (Canto di trionfo) opus 55 per baritono, doppio coro e orchestra dedicandolo al Kaiser Guglielmo I. Arturo Toscanini invece, il 26 agosto 1917, durante la Prima guerra mondiale, dopo essere giunto nelle prime linee del Monte Santo (siamo nelle zone del Collio) dove qualche giorno prima la Brigata Forlì aveva piantato il tricolore, diresse un concerto facendo suonare alla banda – «in faccia» al nemico – canti patriottici, la Marcia reale e l’Inno di Mameli. L’indomani, in una lettera alla moglie, il direttore usò proprio questi termini: «Suonammo in faccia agli austriaci». È un po’ come se davvero le note, in quella circostanza di orgoglio nazionale, si trasformassero in proiettili da sparare contro il nemico.
A volte capita invece che, a distanza di anni, le musiche a programma e celebrative perdano il loro significato originario e vengano totalmente decontestualizzate. Prese dunque unicamente per il contenuto musicale. Un esempio che tutti conosciamo: ogni 1° gennaio decine di milioni di persone durante la diretta tv trasmessa dal Musikverein di Vienna del tradizionale concerto di Capodanno battono le mani a tempo sulla celebre Marcia di Radetzky di Johann Strauss padre, senza sapere che era stata scritta (pare in due ore soltanto) in onore del comandante in capo dell’esercito imperiale, Johann Joseph Wenzel, conte Radetzky von Radetz, per celebrare la sua marcia trionfale su Milano il 6 agosto 1848.
Si potrebbe proseguire il racconto procedendo a zigzag dietro le quinte della storia e andare a ripescare le numerosissime musiche legate, a vario titolo, alla guerra, dai melodrammi di Giuseppe Verdi e di Gaetano Donizetti ai canti pacifisti contro il conflitto americano in Vietnam e tanto altro ancora. Optiamo invece per il periodo del secondo conflitto mondiale, che ha lacerato il Novecento. E che è quello a noi storicamente più vicino, quello che conosciamo forse meglio di altri.
L’orecchio corre qua e là contemporaneamente, le associazioni musicali si ramificano e si moltiplicano, ma la settima Sinfonia opus 60 in do maggiore Leningrado di Dmitrij Šostakovic rimane un caso esemplare, un simbolo della resistenza antinazista. I fatti: il compositore russo compone questa partitura – la sua, ancora oggi, più eseguita – fra l’agosto e il dicembre del 1941, durante l’assedio di Leningrado da parte dell’esercito hitleriano. Spiegando la parte iniziale dell’Allegretto del primo movimento, il compositore dice che la sinfonia «parla del popolo che vive una vita pacifica e felice», mentre in quella centrale «la guerra irrompe improvvisamente nella vita pacifica» e qui Šostakovic chiarisce: «Non voglio costruire un episodio naturalistico con tintinnare di sciabole, esplosioni (...). Cerco di comunicare l’impatto emotivo della guerra». E lo fa benissimo: con un ostinato di 22 battute ripetuto per 12 volte. Dopo la prima esecuzione (5 marzo 1942 a Samara, in Unione Sovietica) la partitura diventa protagonista di una storia che ha dell’incredibile. Attraverso un microfilm si riesce a farla arrivare in Occidente, dove ebbe inizio il mito mondiale della Settima: il 19 luglio dello stesso anno viene diretta negli Stati Uniti da Arturo Toscanini. Solamente in America, nell’arco dello stesso anno, la Settima viene eseguita altre 62 volte da Serge Koussevitzky, Leopold Stokowski, Dimitri Mitropoulos e Pierre Monteux, fra gli altri.
Un altro capolavoro, assai diverso, portato a termine nel 1941 nel campo di concentramento di Stalag VIII-A a Görlitz, al confine tra le attuali Germania e Polonia, è il Quatuor pour la fin du temps (Quartetto per la fine del Tempo) per violino, clarinetto, violoncello e pianoforte, del francese Olivier Messiaen. È il suono dell’Apocalisse, in otto movimenti: «L’otto della luce indefettibile, della pace inalterabile», disse il compositore.
Bisognerebbe ricordare a questo punto altre pagine indimenticabili di Arnold Schönberg, Kurt Weill, Viktor Ullmann, Paul Hindemith, Hanns Eisler, Frank Martin e Benjamin Britten, ma ci piace ricordare un lavoro collettivo che nel 1995, per il cinquantenario della fine della guerra, riunì a Stoccarda 14 compositori appartenenti ad altrettanti Paesi coinvolti nel conflitto nella composizione del Requiem der Versöhnung (Requiem della riconciliazione). Parteciparono, fra gli altri, Luciano Berio, Wolfgang Rihm, György Kurtág, Alfred Schnittke e Krzysztof Penderecki. Ognuno di loro, senza sapere che cos’avesse scritto l’altro, doveva comporre una parte del Requiem. Cucì insieme tutto il tedesco Helmuth Rilling. Forse, nell’insieme, non ne uscì un capolavoro ma l’idea certamente lo era.